C’è ancora spazio per la libertà d’informazione in questo Paese? Alla vigilia di un voto che probabilmente cambierà la geografia politica dell’Italia, la domanda è tutt’altro che retorica od oziosa. Se c’è un tema fondamentale per le sorti della democrazia totalmente ignorato nel confronto elettorale fra vecchie e nuove formazioni politiche questo è stato certamente la sorte del sistema di garanzie costituzionali (fra cui l’articolo 21), che il ventennio berlusconiano ha stressato fino a portarlo sull’orlo del collasso. Anzi la deriva populista trova spazio anche nell’intolleranza del “grillismo” che mal interpreta il potenziale democratico del web, diventando così speculare ai “poteri forti” a cui afferma di volersi opporre: entrambi allergici al controllo e alle domande non preconfezionate.
Ridotti al lumicino i finanziamenti alle testate di idee e in cooperativa (salvo una norma come quella che ha parzialmente salvato “il manifesto”, aprendo però un varco a nuovi giochini del sottobosco editoriale), anche il complesso dell’industria dell’informazione è alle prese con una crisi strutturale. La transizione digitale ha messo in discussione alla radice vecchi modelli di business, prodotti, figure professionali e, quel che è peggio, tutto ciò avviene in una fase profondamente recessiva: la tempesta perfetta.
Le ristrutturazioni annunciate nei due più grandi gruppi editoriali del Paese, Rizzoli e Mondadori, non sono che la punta dell’iceberg e si affiancano al declino dei modelli televisivi tradizionali, complicato ulteriormente dai guasti del conflitto d’interessi e dal crepuscolo che da tempo sta vivendo la funzione trainante del servizio pubblico radiotelevisivo. Un panorama che non si affronta con qualche prebenda o piccole modifiche qui e là a questa o quella legge. Servono una visione d’insieme e una terapia d’urto che si basi su due obiettivi primari: separare la produzione di informazione da altri interessi (finanziari o industriali se diversi da quelli di scopo), valorizzare il potenziale di volano della ripresa che la informazione/comunicazione possono avere nell’economia italiana.
In cima all’agenda non può che esserci il ritorno della Rai alla sua missione editoriale di servizio pubblico, declinando questo compito attraverso un nuovo piano industriale che le ridia la responsabilità di modello culturale su cui misurare l’intero sistema informativo. La figura del giornalista, ossia del professionista dell’informazione, resta centrale in questo processo, quale garanzia, insieme al pluralismo e alla partecipazione democratica dei cittadini, che non vi siano censure. Il problema è come declinare il professionismo informativo con il panorama frammentato e apparentemente incontrollabile della rete, unico vero dominus.
Qui dovrebbe entrare in campo la funzione formativa e di aggiornamento permanente dell’Ordine professionale. È pensabile affidare il governo d’un processo così complesso e delicato a un’istituzione basata su una legge di 50 anni fa (quando c’era la lavorazione a caldo nella carta stampata e una sola rete televisiva di stato) e che non si è mai voluta riformare? Verrebbe da rispondere “no” senza pensarci. Eppure credo si debba concedere all’Ordine dei Giornalisti l’ultima prova d’appello. Ma le discriminanti devono essere chiare e i trasformismi non ammessi. Subito una riforma che liberi l’Ordine delle pesanti zavorre che si chiamano burocratismo, meschini interessi di bottega e falsi pubblicisti. Ma ancor prima una nuova dirigenza che abbia a cuore le sorti della professione e della categoria e non soltanto le proprie.
Alla politica, come in altri campi, va chiesto di tornare alla funzione originaria di aggregazione del consenso intorno a visioni del mondo, progetti e idee forti, dotando gli attori in campo (imprenditori, sindacati, forze sociali, associazioni, semplici cittadini) degli strumenti per governare una transizione tumultuosa e costruire un futuro dell’informazione con nuovi e più avanzati equilibri.
In conclusione penso si debba chiedere al Parlamento che uscirà dalle urne e al Governo che nascerà subito dopo “un piano Marshall” per l’informazione, fatto non di finanziamenti a pioggia, ma di selettivi aiuti che si concentrino sull’ammodernamento delle infrastrutture (la banda larga prima di tutto), sugli investimenti in nuovi prodotti editoriali, sulla crescita di professionalità adeguate (evitando con la formazione e la riqualificazione la macelleria sociale di intere categorie).
Riformare il mercato favorendo chi produce occupazione stabile e qualificata. Separando definitivamente il no profit dall’attività imprenditoriale che mira, lecitamente, a fare utili e detassando quelli reinvestiti. Un modo per impedire, fra l’altro, un processo carsico e pericolosissimo: l’espandersi delle mafie nel settore editoriale. Più di un segnale indica che la malavita organizzata, complice la crisi, sta mettendo le mani su piccole e medie testate, organizzando un’ informazione addomesticata che serve a mantenere il consenso sul territorio.
Ma bisogna fare presto, perché il tracollo è vicino e ne va di un bene pubblico prezioso come l’acqua: la libertà dei cittadini.
* Segretario Associazione Stampa Romana