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Il bavaglio del principe e del mercato

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Chi l’avrebbe detto che la metafisica avventura del terzo polo televisivo finisse in una secca come quella che si profila. Non sono bastati Santoro, Lerner, Gruber, Formigli, Bignardi e così via per rilanciare La7. Lo status quo televisivo è un punto inossidabile dei cosiddetti «poteri forti» italiani. A dispetto dei santi e del presunto libero mercato, inceppato ogni volta da fili visibili e invisibili. E così il consiglio di Telecom ha sfidato il buon senso comune. Perché?

Tre indizi fanno una prova, scrive Agatha Christie. E nella vicenda de La7 ci sono, eccome. Il compratore designato Urbano Cairo è antico esponente del berlusconismo allargato. Il concorrente più agguerrito, Diego Della Valle, non è stato accettato perché fuori tempo: ma era forse un concorso della pubblica amministrazione? E anche Tarak Ben Ammar, onnipresente come in un algoritmo di Google quando arriva il Cavaliere. Insomma, malgrado le timide rassicurazioni di Bernabè, il rischio che a poche ore dalla sua sconfitta politica l’impero mediatico dell’ex premier si allarghi ancora è serio. La prova c’è. E le impronte digitali sono ben riconoscibili.

Del resto la storia de La7 è quasi stregata, sicuramente legata all’antica e pur attualissimo costruzione del terzo polo televisivo. Una creatura mai nata visto che la fragile normativa italiana rende naturale il duopolio Rai-Mediaset e asperrimo qualunque tentativo di una «terza via».

Conflitto di interessi e legge Gasparri hanno aiutato a rifinire un quadro d’insieme già compromesso dalla debole attitudine italiana alla concorrenza e al pluralismo. Ora vedremo il seguito della storia e capiremo se continuerà la delittuosa asimmetria tra ascolti in crescita di una tv arricchita da grandi professionisti e una bassa raccolta di pubblicità. L’anomalia italiana sta, ancora, tutta qui. Mediaset va male nell’audience e tiene negli spot, gli altri no. E da questa anomalia il nuovo governo dovrà ripartire.

Già oggi, doverosamente, il ministero competente e l’Autorità per le comunicazioni battano un colpo. Un’emittente nazionale non può passare di mano come un atto burocratico. Persino la normativa in vigore prevede specifiche autorizzazioni. Non è possibile che ci si limiti a un altro de profundis, senza dire che il re è nudo. Le frequenze sono un bene pubblico. La trasparenza è d’obbligo. Qualcuno da lassù spieghi perché tutto questo accade a poche ore dal voto e senza reali benefici economici per Telecom. Il bavaglio è totale. Censura del «Principe» ma anche del «Mercato». Si reagisca, prima che sia troppo tardi. Che vuol dire vincere le elezioni?

P.S. Nella sua sgangherata polemica con Bersani, Berlusconi è apparso molto preso dalla notizia. Altro che indizi, qui siamo all’epifania della guerra preventiva, per sterilizzare il nuovo possibile governo.

Pubblicato da “il manifesto” del 20/02/2013


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