di Gaetano Liardo
E’ la regione dove le cosche hanno piantato solide radici, dove i boss fanno affari e ripuliscono il denaro sporco. E’ la regione dove si sperimentano alleanze trasversali ed impera quella che la Dna definisce l’altra ‘ndrangheta. In Emilia-Romagna ormai da qualche anno la consapevolezza della minaccia rappresentata dalle mafie ha fatto breccia nel mondo delle istituzioni e nella società civile. E’ la regione che ha approvato una importante legislazione antimafia, e quella dove i professionisti hanno deciso di dotarsi di un codice etico contro i clan. E’ la regione dove un giornalista che scrive di mafie a Modena è costretto a vivere sotto scorta.
L’Emilia-Romagna degli anticorpi sociali e delle opportunità economiche, motore economico di quello che dovrebbe essere il nuovo sviluppo italiano è un’isola felice per i boss? Interrogativo centrale sul quale domani a Modena si baserà il seminario organizzato da Libera Informazione, in collaborazione con il Cup e Libera. A cercare di dare una risposta alla domanda provocatoria saranno Giovanni Tizian, giornalista di L’Espresso, e Vito Zincani, procuratore di Modena. Questione, quella al centro del dibattito, resa ancora più importante, dalle vicende della ricostruzione post-sisma. Laddove ci sono soldi e finanziamenti utili per far ripartire i paesi colpiti dal violento terremoto del 2012, ecco pronte imprese “controllate” e professionisti compiacenti.
Intervenendo a Roma, nel corso della presentazione del libro Zenobia di Antonello Mangano, Giovanni Tizian ha tratteggiato bene la situazione che si vive in Emilia-Romagna. «Si tratta dell’avanzamento e del radicamento di una mentalità, quella mafiosa, che nel nostro Paese è aiutata dal modello di sviluppo. Perché? Perché la competizione – sottolinea Tizian – ha assunto un ruolo fondamentale nel regolare i rapporti. E’ chiaro che il miglior competitor è quello che utilizza quegli strumenti che, verrebbe da dire, sono paralegali. Strumenti cioè, che solo apparentemente sono legali, ma che nascondono metodi illegali “raffinati”, e a volte spregiudicati».
Vince chi ha soldi e potere, soprattutto in un periodo di crisi dove le aziende chiudono schiacciate dal peso delle tasse, e dalla mancanza di credito. L’impresa mafiosa che opera al nord e che, negli ultimi tempi cerca di entrare nel business della ricostruzione post-sisma in Emilia-Romagna, questi svantaggi non li ha. Il potere è dato dalla forza di intimidazione che deriva dalla natura stessa dell’impresa, ovvero di essere di proprietà di mafiosi. L’accesso al credito non è un problema. I boss hanno disponibilità illimitate di soldi, derivanti dai proventi illeciti più disparati. Per quel che riguarda le tasse, l’impresa mafiosa semplicemente non le paga, le ignora, ottenendo un ulteriore vantaggio rispetto a gli imprenditori onesti. Sfruttando, infine, le conoscenze messe a disposizione dai cosiddetti colletti bianchi, professionisti a disposizione delle cosche che aiutano i boss a penetrare il mercato economico legale.
In che modo? Ad esempio sfruttando forme imprenditoriali che permettono di abbassare i costi da versare al fisco, come nel caso delle cooperative. Un problema simile a quello che sta affrontando la vicina Lombardia, dove il mondo delle cooperative ha compreso le minacce all’intera struttura economica lombarda provenienti dalla spregiudicatezza dei clan. Lo scorso 30 gennaio, a Milano, le tre principali organizzazioni lombarde – Legacoop, Confoccoperative e Agci – hanno organizzato una giornata di lavori, in collaborazione con Libera Informazione e Libera, per affrontare l’argomento. In un’intervista rilasciata a Liberainformazione, il presidente di Legacoop Lombardia, Luca Bernareggi, non ha minimizzato il problema.
«Come cooperative dobbiamo fare due cose. La prima – sottolinea Bernareggi – è quella di essere dei bravi imprenditori, agendo in percorsi di legalità, contrastando – ad esempio – quelle forme di imprenditorialità cooperativa utilizzate per fini illegali, come succede in alcuni settori, quali la logistica e la movimentazione. Occorre quindi rispettare la legge e agire in un regime di trasparenza e legalità. La seconda cosa da fare è essere dei bravi cooperatori. L’impresa cooperativa –aggiunge – non è basata sul “vince chi ha più soldi”, ma si fonda sulla trasparenza, sulla partecipazione, sulla democrazia e sul rapporto con la realtà in cui si opera. Questi sono gli elementi che possono servire a contrastare le mafie».
Un atteggiamento che, purtroppo, non è la prassi nel sistema imprenditoriale lombardo, tantomeno in quello emiliano. Nelle ricche province dell’Emilia, tra Modena, Parma, Piacenza e Reggio-Emilia, si assiste alla tendenza inversa. Sono gli imprenditori che cercano i boss, chiedendo loro aiuto per aggiudicarsi appalti, far ritirare imprese concorrenti. In cambio naturalmente, offrono alle mafie le chiavi per entrare, ogni giorno di più, nel tessuto economico legale.
«Nei lavori per la ricostruzione post-sisma – sottolinea Tizian – sono state sospese dalla Prefettura due aziende modenesi doc, mantovane doc. Questa situazione ha creato una polemica enorme, soprattutto da parte del senatore Carlo Giovanardi, secondo cui un’impresa di Modena non può essere condizionabile dai clan». Una polemica facilmente smontabile.
Se ci spostiamo da Modena a Reggio Emilia, città core business delle attività della cosca Grande-Aracri del crotonese, gli imprenditori sono ben felici di “aiutare” i boss, in cambio di protezione e favori. Angelo Salvatore Cortese, oggi collaboratore di giustizia, spiega ai magistrati della Dda di Catanzaro che hanno coordinato l’operazione Pandora nel 2009, come funziona la situazione nel reggiano: «Come vi ho spiegato, per tutte queste cosche qua è un bancomat perché non c’è bisogno di fargli estorsione… là basta che mi presento io che sono Salvatore CORTESE, lui si mette a disposizione, e il minimo quando uno va là sono 10.000, 15.000 euro alla volta».
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