Giorni fa ero tra i volontari della mensa caritas di colle oppio a roma, un luogo che conosco fin dai tempi di don Luigi Di Liegro. La fila per il pranzo era diversa dal solito, non c’erano solo clochard ed extracomunitari, ma anche una normalità fuori luogo, fatta di zie col cappottino, pensionati col «principe di Galles» e giovani senza lavoro con la laurea in tasca. Insomma, in quella fila era rappresentato il ciclo della vita nel tempo della crisi globale: giovani, adulti licenziati, padri separati, donne senza alimenti e anziani, tanti. Storie diverse che la crisi ha legato indissolubilmente. Se i giovani non lavorano, gli adulti perdono il posto e le pensioni scadono nel loro potere d’acquisto, il rischio è di scivolare nella povertà. E di rimanerci.
Nella rampa della mensa c’era la grande questione sociale e i suoi effetti sulla vita delle persone. Palpabile era il segno di una rassegnazione esistenziale: a chi mi rivolgo, con chi me la prendo? Già, chi si occupa degli esclusi? Con i volontari notiamo lo scarto fra il dibattito pubblico e la realtà. La discussione sembra concentrarsi – come avrebbe detto Giorgio La Pira – sul «contare i torti dei disoccupati prima delle loro ferite». E tornano alla mente le parole di Monti sul «silenziare» chi pone la necessità di una modifica dei meccanismi di distribuzione della ricchezza. In realtà il tema non è nuovo: già nei primi anni della Repubblica era aspro il confronto fra monetaristi e keynesiani.
Nessuno, però, avrebbe chiesto a De Gasperi di «silenziare» Dossetti o Fanfani nelle loro dure polemiche con Pella e la Banca d’Italia. Oggi il confronto fra «rigoristi» e neo-keynesiani è ripreso ed é bene non spegnerlo in Italia e in Europa. Le grandi crisi, con connotati e in contesti diversi, producono sempre il medesimo quesito: si esce dalle difficoltà con più rigore o si esce con più produzione e dunque occupazione e offrendo maggiori protezioni? Nel secondo dopoguerra, il compromesso raggiunto ha fornito slancio alla modernizzazione e gli ingenti incrementi di produttività hanno consentito il diffondersi della ricchezza. Non è solo questione di formule, ma di tensione ideale. Per i cristiani – considerato che il tema torna di attualità – non può esservi neutralità morale nelle teorie economiche. Partire dagli ultimi è la scelta dei progressisti, e lo è per i cristiani che ritengono ingiusta la logica della voracità mondana e dell’offesa alla dignità umana. Umanesimi che provengono da storie diverse, senza timidezze, devono ribadire che «il mercato non può essere un principio assoluto, poiché è un mezzo per raggiungere un qualche scopo» (Colin Crough).
Guardando alla mensa di Colle Oppio la domanda non ammette subordinate: cosa attende questa gente dal nuovo governo? Il sacerdote che mi accompagna è diretto: «Le loro condizioni di vita di sono nelle vostri mani». Nel nostro mondo si torna dunque alla richiesta di una liberazione dal bisogno, con la percezione di dover ruminare una verità scomoda: la povertà non è solo l’assenza di ricchezza, ma anche l’effetto della ricchezza. Redistribuzione e lavoro sono i paradigmi del cambiamento.
Non c’è bisogno di scomodare i teorici dell’economia per sapere che l’occupazione dipende dalla spesa. Ed è qui che la questione del risparmio bussa alla nostra porta. Il risparmio delle famiglie va difeso; il risparmio generato dalle grandi rendite o dai meccanismi del patto di stabilità producono invece esclusione e marginalità. L’ultima riflessione davanti alla fila per un pasto è sulle energie da liberare. «Il talento non dev’essere sotterrato», scrive ancora La Pira, ricordando che così facendo si rinuncia all’investimento che è una parte costituente la domanda. Chi nasconde non spende, chi non spende non fa lavorare. Dopo l’imbroglio liberista, per dirla con Edmondo Berselli, c’è bisogno di un’economia giusta; dopo l’anno del rigore c’è bisogno di curare la salute della democrazia. Per i cristiani sarà anche il modo per rispondere al richiamo di Giovanni Paolo II: «Mai più contraddizioni alla carità nel servizio della verità».
*da “l’Unità”