di Roberto Bertoni
Ora che sono state presentate tutte le liste – comprese quelle del PDL, ripulite all’ultimo momento dai cosiddetti “impresentabili” – appare, finalmente, chiaro lo scenario politico che caratterizzerà questo intenso mese di campagna elettorale. Mancano, infatti, meno di trenta giorni all’appuntamento del 24 e 25 febbraio, quando l’Italia sarà chiamata a scegliere tra la conservazione e il cambiamento, tra un fronte marcatamente progressista come quello rappresentato dalla coalizione “Italia Bene Comune” e l’aggregazione dei soliti noti (PDL, Lega e alleati vari) che ha governato per otto degli ultimi undici anni, producendo i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Tuttavia, a scompaginare lo schema bipolare che regnava sovrano da quasi vent’anni, sono recentemente comparsi sulla scena tre attori che renderanno questa sfida incerta come non mai, forse addirittura più combattuta che nel 2006, quando Prodi vinse per un’incollatura al termine di una competizione tra le più aspre di sempre. Monti, Grillo e Ingroia, difatti, rappresentano tre elettorati molto diversi fra loro, e sicuramente minoritari nel Paese, ma non per questo da sottovalutare o, peggio ancora, da trascurare, specie in vista di un’auspicabile affermazione del centrosinistra.
In effetti, come ha spiegato più volte Bersani, chiunque dovesse vincere, anche se dovesse ottenere il cinquantuno per cento dei consensi, dovrebbe comunque comportarsi come se avesse ottenuto il quarantanove per cento perché altrimenti rimarrebbe intrappolato nella perversa spirale di leaderismo e prove di forza che ha avvelenato l’ultimo ventennio. Di fronte a quest’innegabile prospettiva, però, c’è già chi storce la bocca, a cominciare proprio da Grillo e Ingroia, fautori di uno spirito autarchico che ha sempre portato male alla sinistra, consentendo alla destra di conseguire vittorie oceaniche. Da qui, la richiesta di puro buon senso – purtroppo respinta con fastidio dagli arancioni – di desistere almeno nelle regioni chiave, quelle in cui si deciderà la battaglia del Senato e nelle quali è noto a tutti che, andando da soli, non riusciranno mai a raggiungere l’otto per cento richiesto dalla legge elettorale per ottenere dei seggi.
E da qui, spiace doverlo ammettere, sorge spontanea anche una considerazione sugli effettivi propositi di Rivoluzione Civile: innanzitutto, tornare in Parlamento, almeno per quanto riguarda le forze della sinistra radicale che nel 2008 non riuscirono a raggiungere il quorum né alla Camera né al Senato; in secondo luogo, farsi portavoce di alcune temi e di alcune iniziative (dal referendum sulla riforma Fornero alla difesa dell’esito dei quattro referendum del giugno 2011, senza dimenticare le missioni di pace, il taglio alle spese militari, le politiche sociali da perseguire e molti altri ancora) che hanno animato il dibattito pubblico negli ultimi anni e sui quali sarebbe opportuno che Ingroia e il suo movimento aprissero una seria discussione con il centrosinistra invece di cullare l’utopistico sogno di fare da soli; infine – temiamo noi, ed è l’aspetto che maggiormente ci addolora – rendere meno agevole del previsto la vittoria del fronte progressista per poterlo poi condizionare dall’interno, come accadde nella sventurata esperienza dell’Unione.
Ebbene, se i primi due obiettivi sono pienamente legittimi, il terzo induce molti di noi a domandarsi: perché? A che scopo? Ma davvero Ingroia e gli arancioni credono che un’eventuale vittoria dimezzata del centrosinistra non sarebbe una catastrofe per il Paese e che i loro veri avversari siano il PD e SEL e non Berlusconi e la Lega di Maroni? Permetteteci di nutrire più di un dubbio in merito: sia perché conosciamo e apprezziamo da sempre l’intelligenza di Ingroia e dei suoi compagni d’avventura sia perché siamo ben coscienti di cosa vorrebbe dire, per un’Italia allo stremo, il riproporsi di una situazione simile a quella del biennio 2006-2008, tra continue baruffe al Senato ed un clima di instabilità permanente che, se all’epoca era deleterio, oggi risulterebbe fatale.
A modo suo, sia pur non dandolo troppo a vedere, Monti – che è un uomo di mondo, addentro ai vertici europei e, in particolare, a quelli economico-finanziari – lo ha capito bene e, infatti, nelle ultime settimane ha avviato un lento processo di distensione con i democratici che si rivelerà molto utile a urne chiuse, quando la stagione delle promesse dovrà per forza di cose lasciar spazio a quella della concretezza e del realismo.
Quanto a Grillo e Berlusconi, infine, è evidente che siano animati dalla stessa logica: quella logica che qualche settimana fa abbiamo definito “dello sfascio” e che si basa, nel caso del Cavaliere, sulla ferma volontà di mettere i bastoni tra le ruote al centrosinistra, animato dalla manifesta speranza che la coalizione guidata da Bersani non sia autosufficiente nella Camera alta e nel caso di Grillo, invece, sul desiderio, peraltro più volte dichiarato, di giungere ad una sorta di democrazia diretta, senza più alcuna mediazione né da parte dei partiti né da parte dei sindacati.
A tal proposito, ci permettiamo di fare umilmente presente all’ex comico genovese che l’Italia ha già vissuto una stagione del genere e gli consigliamo, nel caso avesse ancora qualche dubbio, di chiedere ulteriori informazioni agli esponenti di Casapound (ossia i “fascisti del Terzo Millennio”, come amano definirsi), verso cui nei giorni scorsi aveva dichiarato un’imbarazzante apertura.
Saranno, dunque, queste le cinque Italie che si confronteranno e, con ogni probabilità, si scontreranno anche duramente fino a fine febbraio. Il nostro auspicio è che, al termine della contesa, si possa, prima di tutto, voltare definitivamente pagina rispetto all’interminabile era berlusconiana e poi che a guidare l’Italia verso un futuro migliore sia Pierluigi Bersani, con una maggioranza autonoma sia alla Camera sia, soprattutto, al Senato, per porre fine anche alla lunghissima quanto tragicomica transizione italiana, di cui speriamo che il professor Monti sia stato davvero l’ultimo interprete.