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La vergogna di una giustizia lumaca

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Una piccola notizia di cronaca, fa pensare a uno di quei bozzetti in cui era maestro Ferenc Kormendi. Invece che a Budapest, siamo però a Genova. I protagonisti di questa storia a cavallo tra il ridicolo e il patetico sono un pizzaiolo e il suo fornitore. Per qualche ragione che qui poco importa conoscere, il pizzaiolo non paga il fornitore. Il fornitore le tenta tutte, per vedersi saldato il debito, compreso il ricorso a metodi non proprio ortodossi. Scatta così una denuncia, per estorsione.

I fatti accadono nel 2003, dieci anni fa. Il magistrato che si occupa della vicenda, dopo un po’ si trasferisce in un’altra sede. Il successore che eredita il caso, è oberato da decine, centinaia di altri procedimenti tutti più urgenti. Il tempo passa. Debitore e creditore giocoforza si convincono che la storia è finita lì; anche gli avvocati dopo un po’, presi probabilmente da altre cause, finiscono con il perdere i contatti con i loro assistiti.

Una storia, finora, come tante, di giustizia denegata, dove tutti perdono, e nessuno ha soddisfazione. Trascorrono gli anni. Dieci, per l’appunto. Ed ecco che, inaspettatamente, il Tribunale fissa l’udienza preliminare; per l’8 gennaio, una settimana fa. Dieci anni per l’udienza preliminare sono già di per sé una beffa; ma la cosa va molto al di là della beffa, perché viene fuori che nessuno si era accorto che sia il debitore che il creditore nel frattempo erano morti.

Caso limite, si dirà; e chissà se anche questa vicenda rientra tra “i temi molto tecnici”, formula usata dalla signora ministro della Giustizia Paola Severino nell’auspicare che i partiti considerino il tema della giustizia centrale. E’ davvero una perla, quel “temi molto tecnici”, per definire la giustizia e la sua situazione di collasso e paralisi, espressione rivelatrice, illuminante.

Si parla molto della situazione delle carceri, ed è giusto che si faccia. Le carceri però sono solo la punta dell’iceberg del più generale sfascio della giustizia italiana. Ogni giorno nei tribunali si verificano casi come quello di Genova; e di pari passo si consuma quella che si può ben definire amnistia strisciante, clandestina e di classe: l’amnistia delle prescrizioni, di cui beneficia solo chi si può permettere un buon avvocato e ha “buone amicizie”; sono circa 150mila i processi che ogni anno vengono chiusi per scadenza dei termini. Ogni giorno almeno 410 processi vanno in fumo, ogni mese 12.500 casi finiscono in nulla. I tempi del processo sono surreali: in Cassazione si è passati dai 239 giorni del 2006 ai 266 del 2008; in tribunale da 261 giorni a 288; in procura da 458 a 475 giorni. Spesso ci vogliono nove mesi perché un fascicolo passi dal tribunale alla corte d’appello.

Una situazione, a parte gli irrisarcibili costi umani, che grava pesantemente sui conti dello Stato. L’esasperante lentezza dei processi penali e civili italiani costano all’Italia qualcosa come 96 milioni di euro l’anno di mancata ricchezza. Confindustria stima che smaltire l’enorme mole di arretrato comporterebbe automaticamente per la nostra economia un balzo del 4,9 per cento del PIL, e anche solo l’abbattere del 10 per cento i tempi degli attuali processi, procurerebbe un aumento dello 0,8 per cento del PIL. Grazie al cattivo funzionamento della giustizia le imprese ci rimettono oltre 2 miliardi di euro l’anno, e il costo medio sopportato dalle imprese italiane rappresenta circa il 30 per cento del valore della controversia stessa, a fronte del 19 per cento nella media degli altri paesi europei.

Prima di finire, una sentenza, del tribunale di Firenze; è passata inosservata, eppure è destinata ad avere la stessa rilevanza e lo stesso peso della recente condanna emessa dalla Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo in seguito al ricorso di sette detenuti nelle prigioni di Busto Arsizio e di Piacenza, che stabilisce che l’Italia viola l’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo (proibizione dell’uso della tortura e di un trattamento inumano e degradante).

I fatti in questione risalgono al 1997 quando un giovane aretino, C.M., all’epoca tossicodipendente, viene incarcerato nella Casa circondariale di Arezzo. Dopo qualche giorno di detenzione, viene ricoverato in una condizione clinica di coma in ospedale. L’anossia cerebrale, provocata da un cocktail di farmaci, ha causato a C.M. la permanente paraplegia degli arti inferiori. La consulenza disposta dal Giudice di Firenze consente di accertare che il coma e la conseguente anossia cerebrale deriva dalla assunzione in carcere di un micidiale cocktail di oppiacei, in parte somministratigli dal personale della Casa circondariale di Arezzo sotto forma di metadone e farmaci neuro-deprimenti, in parte assunto dal giovane di propria iniziativa dal giovane.

Il Tribunale civile di Firenze, infatti, chiamato a quantificare il risarcimento del danno deciso con una precedente sentenza sempre del tribunale fiorentino del 4 maggio 2012, ha condannato il Ministero della Giustizia a risarcire a C.M., la somma di oltre 1 milione e seicentomila euro per le lesioni subite a seguito di una intossicazione dovuta a quel mix di farmaci e stupefacenti avvenuta nel carcere. I legali del ragazzo hanno sostenuto una tesi innovativa che può così sintetizzarsi: essendo C.M. detenuto, e per di più era soggetto tossicodipendente, sussisteva un particolare obbligo di protezione da parte della struttura, derivante dall’impulso di tali soggetti a soddisfare il bisogno di sostanza stupefacente; obbligo comprensivo del dovere di impedire la circolazione di sostanze stupefacenti nella struttura carceraria, luogo sottoposto (o che comunque tale dovrebbe essere) ad un continuo controllo dell’autorità stessa, nel quale quest’ultima, maggiormente che all’esterno, dovrebbe impedire il verificarsi di situazioni non conformi alla legge.

Non solo, quindi, “l’errore nella somministrazione dei farmaci neuro-deprimenti, ma anche l’omesso controllo per impedire che C.M. assumesse autonomamente eroina, costituisce quindi violazione del predetto dovere di protezione, per cui lo Stato era responsabile delle lesioni”.

Al di là della somma di risarcimento quantificata, quello che è importante è l’aver sancito l’esistenza in capo allo struttura carceraria di un preciso obbligo di protezione nei confronti del detenuto; struttura che qualora non impedisca la circolazione al proprio interno di droghe, può essere chiamata a rispondere anche delle lesioni che il detenuto si è autonomamente procurato con l’assunzione di sostanze stupefacenti. Le implicazioni, e le conseguenze, di questa sentenza sono intuibili; questa sentenza, e quella della corte di Strasburgo sono due vere e proprie bombe ad orologeria che il prossimo Guardasigilli non disinnescherà facilmente.


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