Difficile ragionare di televisione in un momento in cui la campagna elettorale sta condizionando la comunicazione e dettando l’agenda del dibattito pubblico. Proverò ad astrarmi riflettendo su alcuni aspetti che mi piacerebbe fossero al centro delle riflessioni dei comunicatori. Le mie osservazioni riguardano il servizio pubblico radiotelevisivo e il bisogno di ridargli prestigio e reputazione a partire da una rinnovata attenzione al “sociale”. Dove per sociale intendo non un elemento marginale ma un riferimento forte per ridare senso e futuro al “core business” della televisione pubblica.
Non si tratta solo di riqualificare l’offerta televisiva con programmi di esplicita impronta sociale ma di far assumere all’azienda Rai una visione che metta al centro la responsabilità sociale d’impresa come meccanismo virtuoso che condiziona la creazione di format e la produzione di contenuti. Tutte le aziende profit oggi si confrontano con questo tema e tutte sono consapevoli che non basta destinare risorse parziali ma è indispensabile coniugare il raggiungimento degli obiettivi con la capacità di renderli anche sostenibili dal punto di vista sociale. A questa sfida è chiamata anche la nostra televisione pubblica che ha di fronte a sé la sfida dell’innovazione e degli ascolti ma anche quella di dover fornire contenuti che riguardano il Paese, la sua coesione, le sue aspettative, le sue emergenze. Di fronte a noi non abbiamo solo dei competitori, che dobbiamo superare sul piano della qualità complessiva, ma ci è assegnato un ruolo di comprensione dei fenomeni e di formazione delle opinioni. Quello che mi aspetto è una azienda culturale capace di elaborare priorità comunicative cui far corrispondere linee editoriali che le reti televisive siano capaci di tradurre, con autonomia creativa, in programmi e rubriche. Una moderna televisione pubblica prima ancora di pensare a format e conduttori dovrebbe aver chiaro il suo ruolo e capire su cosa qualificare la sua offerta. Non basta investire sull’informazione per legittimare la propria finalità “pubblica”. Un palinsesto televisivo non è un insieme di caselle da riempire secondo criteri usurati, e spesso adulterati, di marketing e convenzioni consolidate nel tempo. L’offerta di programmi è anche un modo di leggere la realtà modulando, negli schemi orari stabiliti, visioni affidate a generi diversi ma tenute insieme da uno sforzo di interpretazione generale.
Fiction, talk, infotainment, documentarismo, rubriche non possono essere solo packaging e marketing (spicciolo…) ma rappresentare l’impegno di autori e conduttori nel pensare a formule che favoriscano la conoscenza, la presa di coscienza e la consapevolezza. Immigrazione, terza e quarta età, adolescenza, lavoro, globalizzazione economica, crisi internazionali, paesi emergenti, culture e religioni in conflitto, differenze di genere – e tanto altro – non possono essere solo “temi” da destinare a canali specializzati o a programmi collocati in fascie poco pregiate.
La televisione pubblica onora il contratto di servizio che la lega allo Stato non tanto per come rispetta le percentuali di programmazione stabilite ma per la sua capacità di rendere comprensibile ciò che il contemporaneo impone come attuale e determinante. In un dialogo serrato e in una condivisione di fondo che tenga insieme il management, i produttori, i creativi nel pensare ad un offerta che sia il prodotto di una filiera culturale dove dal direttore generale al redattore semplice ci sia la stessa consapevolezza. Così l’intrattenimento non sarà più vissuto come qualcosa di alieno ma un tassello di un mosaico dove anche le scelte creative saranno ispirate a quella comune visione. I format saranno pensati e costruiti con libertà ma sapendo di dover rispondere a un orientamento che non è generico ma in grado di ispirare anche il meccanismo dell’invenzione. La qualità, a questo punto, non sarà una foglia di fico per coprire le solite vergogne ma il collante che tiene insieme tutto e che consente di leggere uno stile che riguarda tutte le trasmissioni e anche i dispositivi tecnologici che le mandano in onda. Anche nella televisione pubblica bisogna inaugurare un nuovo modo di fare che non può non partire dalla partecipazione di tutti al raggiungimento di quell’obiettivo che oggi, come doveva essere anche ieri, è la centralità del servizio pubblico radiotelevisivo.