di Roberto Bertoni
Chi lo ha seguito in diretta da Santoro, ha avuto la conferma definitiva che Berlusconi è uomo in difficoltà ed un politico oramai finito, per quanto tenti disperatamente di mantenersi a galla e di risalire nei sondaggi, mettendo insieme tutto e il contrario di tutto in una coalizione che – come ha scritto Pietro Spataro su “l’Unità” – assomiglia sempre più ad “un’armata senza Brancaleone”. Lui, che in tutti questi anni ha stravolto di fatto la regola costituzionale in base alla quale spetta al Capo dello Stato la nomina del Presidente del Consiglio, stavolta è stato costretto ad ammettere implicitamente che non è mai stato eletto dal popolo (come ha ripetuto ininterrottamente dal 1994 in poi) ma sempre nominato dai vari Scalfaro, Ciampi e Napolitano, minando così egli stesso quel sogno presidenzialista che, se si trasformasse in realtà, sarebbe un incubo per l’intera Nazione. Lui, insomma, che continua a mettere il proprio nome sul simbolo per attrarre i voti della frangia di elettorato meno attenta alle vicende politiche, è stato costretto dal declino della sua parabola personale ed istituzionale ad evidenziare, sempre implicitamente, che questi vent’anni altro non sono stati che un abbaglio: una deriva della quale il Paese porterà i segni ancora a lungo, a cominciare dalla personalizzazione della politica e dei partiti, dalla scomparsa delle ideologie e, di conseguenza, degli ideali, dalla ferocia di un dibattito pubblico spesso lontano dai bisogni reali dei cittadini e, cosa ancora più grave, dalla progressiva scomparsa di tutti quei temi (dalla scuola all’università, dal lavoro alla ricerca, dai giovani alle tutele sindacali ecc.) che dovrebbero essere invece preminenti in una democrazia occidentale.
Nel ventennio berlusconiano, infatti, il Parlamento è stato spesso impegnato ad approvare leggi ad uso e consumo del Capo del Governo e, talvolta, anche dei suoi più stretti amici e collaboratori; le istituzioni sono state per lo più private della propria ragion d’essere, prima fra tutte il Parlamento; la scuola è stata relegata agli ultimi posti dell’agenda di governo e, quando è stata presa in considerazione, è stato solo per sottoporla a tagli e umiliazioni e il futuro delle nuove generazioni è stato semplicemente ipotecato, trasformandolo in un tempo incerto e privo di punti di riferimento.
Pertanto, come ha scritto Francesco Merlo qualche giorno fa su “la Repubblica”, il confronto serrato fra Berlusconi e Santoro è sembrata una disfida nella quale “si sono legittimati a vicenda come gli anziani Buffalo Bill e Toro Seduto che in un famoso film di Altman ripropongono il combattimento del Selvaggio West ma sotto il tendone del circo quando ormai molte lune hanno logorato il Grande Spirito e i malinconici compari hanno esaurito i proiettili l’uno e le frecce l’altro”. Anche Scalfari ha avuto la nostra stessa impressione, riportando proprio questo passo nell’editoriale dello scorso 13 febbraio e aggiungendo un’altra considerazione puntuta: “Alla fine, dopo un’ora soporifica, hanno anche finto di litigare; Berlusconi ha inventato una “gag” degna di Stanlio e Ollio pulendo col fazzoletto la sedia dove s’era seduto Travaglio; Santoro gli ha poi fatto un “assist” prezioso facendo apparire in video un’imprenditrice bergamasca che invocava il ritorno alla lira per poter pagare i suoi debiti alle banche”. È andata esattamente così, purtroppo non c’è nulla di falso o di inventato nelle scene descritte, come non c’è nulla di falso o di inventato nell’idea pressoché unanime di opinionisti e commentatori (e aggiungerei di una buona parte dei telespettatori) che quest’apparizione abbia senz’altro giovato al Cavaliere. I pessimisti e i berlusconiani di ferro, poi, sono andati oltre, spingendosi addirittura ad affermare che, grazie alla sponda offertagli da Santoro, sia iniziata l’ennesima rimonta ai limiti dell’impossibile di un Berlusconi nuovamente al centro del palcoscenico.
Ora, se è ben chiara la ragione per la quale i berlusconiani hanno convenienza a dire questo, è leggermente meno chiaro il motivo che induce una parte degli elettori di sinistra ad agevolare involontariamente la risalita di un personaggio del quale tutti sanno in Europa che non metterà mai più piede a Palazzo Chigi nelle vesti di Presidente del Consiglio. Tuttavia, quest’atteggiamento di improvviso timore, ci offre una valida occasione per mettere in guardia gli impauriti e gli scettici dall’unico errore che commise Prodi nel corso della campagna elettorale del 2006: un errore che costò al centrosinistra parecchi punti percentuali, costringendolo ad una vittoria di misura e creando le condizioni di ingovernabilità che gravarono sull’esecutivo e sul Paese per l’intera durata di quella breve legislatura.
Berlusconi, difatti, ha sempre saputo fare bene una sola cosa: vendere. È un venditore inarrivabile: di se stesso e dei suoi prodotti ma anche, come ben sappiamo a nostre spese, di slogan e illusioni. Afflitto da una disperazione quasi simile a quella attuale, sette anni fa il Cavaliere puntò tutto sull’unica carta che aveva ancora a disposizione: la sua immagine di uomo ed imprenditore di successo, capace di ispirare fiducia ed infondere serenità e ottimismo ad un Paese che egli stesso aveva contribuito a trascinare, già allora, sull’orlo del baratro. Puntò, dunque, su quella che potremmo definire “percezione di vittoria” e riuscì a vendere persino un prodotto di cui non disponeva, attraendo milioni di consensi con la trovata pirotecnica dell’abolizione dell’ICI.
Prodi, invece, rimase vittima della propria serietà, della propria prudenza e della propria sobrietà, apparendo agli occhi di molti come un leader grigio, triste e inadatto a condurre l’Italia verso un avvenire migliore. Apparve, insomma, come uno sconfitto quando, in realtà, era il vincitore annunciato di quelle elezioni; vinse male e, se oggi siamo ridotti così, una parte di responsabilità è da attribuire anche a quell’affermazione troppo striminzita per consentire ad un governo autenticamente riformista di restituire prospettive solide e riportare in Europa una Nazione sfibrata e sfiduciata.
A differenza di allora, però, oggi Berlusconi ha sette anni in più; il centrosinistra, dalla nascita del PD in poi, si è riorganizzato alla grande ed ha avuto il coraggio di cambiare e rinnovarsi al proprio interno; il centrodestra è in frantumi, costretto a spacchettamenti e alleanze di comodo che oramai non abbindolano neanche gli elettori più ingenui e la crisi economica, politica e sociale che stiamo attraversando ha posto fine, a livello globale, all’interminabile stagione del neo-liberismo della quale il berlusconismo altro non è che una delle molteplici sfumature.
Sarebbe quindi assurdo, da parte nostra, consentire ancora una volta all’illusionista di Arcore di spacciarsi per il sicuro vincitore di questa competizione quando tutti sanno, non solo in Europa, che la sua avventura politica si è conclusa nel novembre del 2011 ed è destinata a non riaprirsi mai più.
Al contrario, abbiamo il dovere morale e civile di denunciare l’ennesima “discesa in campo” del Cavaliere per quello che è veramente: l’ultimo, vano e disperato tentativo di restare sulla scena di un uomo che sa di aver mancato la propria occasione ma non si rassegna all’idea che qualcun altro possa riuscire dove lui ha clamorosamente fallito. Dopodiché, prepariamoci a governare e a governare al meglio perché questo Paese può farcela solo se si libera non tanto di Berlusconi quanto, soprattutto, del berlusconismo e di ciò che esso rappresenta.