Un anno dal punto di vista delle donne. A partire dalle varie forme di violenza contro di noi. Violenza fisica, piscologica e al tempo della crisi infinita -l’alibi buono per tutte le stagioni della politica e dell’antipolitica- la violenza è anche economica. E lo è fuori e dentro la coppia. Nei luoghi di lavoro, nei servizi che mancano, nell’ancora scarsa rappresentanza pubblica e privata (vedi vertici aziendali, cda, consigli etc…), e nella difficoltà di poter vivere di proprio reddito secondo competenze e formazione.Questione che certo riguarda anche tanti uomini. Un caso di parità come sempre ci diciamo, di cui volentieri, faremmo a meno. Ma il dramma di questo anno visto con occhi di donna resta certamente il femminicidio. L’omicidio con la motivazione di genere: essere uccise in quanto donne. Molte, tante, ancora troppe quelle che sono state assassinate da uomini. La macabra conta delle vittime di femminicidio a meno di 24 ore dalla fine del 2012, è un triste rosario di nomi, storie, vite che non ci sono più. Centoquaranta. Sì 140, quasi 30 in più rispetto allo scorso anno, le donne di 16, 20, 40 e anche più anni, che non sono più cittadine italiane. Sono passate all’anagrafe mortuario. Tutte uccise perché hanno detto basta al quotidiano sopruso e abuso. O perché hanno denunciato una persecuzione come nei casi di stalking per i quali una legge ancora troppo debole, non costituisce garanzia di salvezza. Non soltanto per le dirette interessate. Carmela Petrucci, una bella ragazza palermitana di appena 16 anni e tanti progetti, sogni e ambizioni da realizzare, è una vittima colleterale di violenza e anche di stalking. È stata uccisa a coltellate nell’atrio del suo palazzo, mentredifendeva la sorella maggiore da un ex fidanzato che non accettava di esserlo.Vittime di una violenza che non risparmia neppure la propria figlia a una manciata di settimane dalla sua nascita. Come la creatura di cui Maria Anastasi 39 anni era incinta all’ottavo mese, quando lo scorso luglio è stata uccisa a Trapani dal marito e padre dei suoi 4 figli. Ma sono state tante anche le donne che hanno denunciato, nontaciuto e neppure nascosto i segni delle violenze subìte da parte di uomini che fino a un certo punto sono stati i loro uomini. I loro compagni, i loro fidanzati e che in molti casi resteranno sempre e comunque i padri dei loro figli, anche quando quest’ultimi a loro volta, sono vittime di violenza assistita o di Pas. Proprio la sindrome di alienazione parentale, una non malattia disconosciuta dall’associazione americana degli psicologi e persino dal nostro Ministero della Salute, nelle aule di numerositribunali italiani per i minorenni, invece, da tempo è oggetto di tante perizienell’affidamento dei figli a uno dei due coniugi. Nella statistica dei casi, in assenza di dati ufficiali, si è visto come a far valere la tesi della Pas siano i padri separati. Una forma ulteriore di violenza contro le donne nel percorso di separazione da un uomo.Ma questa è un’altra storiaccia diventata -finalmente- cronaca in una puntata della trasmissione Chi l’ha visto? di Federica Sciarelli, che ha mandato in onda il video realizzato dalla zia e dalla madre del bambino di Padova prelevato a forza dalla polizia davanti la scuola. Quando il mestiere del giornalista diventa di pubblica utilità, la televisione servizio pubblico e la scelta di raccontare e denunciare -di cittadini e giornalisti- è bene comune. Molte donne hanno scelto di denunciare le violenze nei commissariati, presso i centri e le associazioni antiviolenza radicati sul territorio, in teatro e nei libri. A Tor Bella Monaca, estrema periferia romana, un deposito è diventato un centro di ascolto e assistenza e pure un teatro. Si chiamaCe.S.PP. (centro di supporto psicologico popolare). Stefania Catallo è una counsellore nel corso di quasi due anni di attività ha ascoltato decine di donne. Le loro storie le ha raccolte in un libro e rappresentate in due pièce teatrali “Teodora e le altre” e “La Marocchinata”. Nel primo c’è il racconto del dolore, della paura, dell’ansia, delle percosse subìte tra le mura di casa; nel secondo invece la riproposizione di un dramma storico-politico, al quale settant’anni di silenzio ancora negano pienagiustizia per circa 700 donne stuprate da parte dei mercenari marocchini al soldo dell’esercito francese, in Ciociaria e in parte della Sicilia. Stupri di massa che non hanno risparmiato neppure bambini e uomini, compiuti tra la fine della seconda guerra mondiale e la liberazione da parte degli alleati. Alcune di queste donne, oggi novantenni, le ho incontrate qualche settimana fa a Fondi in provincia di Latina e in una sorta di restituzione della memoria e senso di riscatto, oggi, raccontano di quelle settanta ore di impunità concesse ai goumiers e di cui dopo le prime visite mediche, mai più hanno parlato; furono silenziate con un minimo risarcimento da parte degli americani. Una realtà che sui libri di storia e nelle cronache non ha avuto spazio, al netto dell’accenno cinematografico nel film di De Sica tratto dall’omonimo libro “La Ciociara” di Moravia. Altre donne che non accettano, non tacciono e denunciano fino all’estremo delle conseguenze, sono quelle interpretate da una giovanissima e brava attrice -Claudia Campagnola- ne “La città di plastica”, la pièce teatrale scritta da Silvia Resta e Francesco Zarzana, per la regia di Norma Martelli. Tre storie di cronaca in altrettanti diversi punti del mondo che Silvia Resta –inviata de La7- ha raccontato in due reportage dall’Afghanistan (le spose bambine che si danno fuco per sfuggire ai matrimoni combinati) e dal Kenya (le coltivatrici di rose uccise dai pesticidi nelle serre di plastica costruite dalle multinazionali dei fiori). Due storie sul cui sfondo c’è la vicenda di Neda, la ragazza appena ventenne uccisa nel 2009 a Teheran, durante l’assalto dei basiji contro la folla che contestava la rielezione diAhmadinejad.
Tante donne. Come chi non accetta la violenza di un articolo determinativo che ne nega il genere. Paola De Nicola nel suo libro “La giudice” ripercorre la storia delle donne in magistratura -accesso negato fino a cinquant’anni fa perché ritenute“psichicamente inadatte” cit.- roba da matti. Oppure chi come Giusi Nicolini, alla violenza delle leggi anti immigrazione del precedente governo, risponde facendo a meno di passerelle di politici e politacanti, e da sindaca di Lampedusa, si rendecredibile agli occhi dei propri concittadini solo con l’azione delle propria forza umana e amministrativa. “Quante donne” parafrasando un bel libro di Enzo Biagi. Tante. Giornaliste comprese che nel corso di questo anno, certo, abbiamo voluto decidere di come raccontare e raccontarci. GI.U.LI.A. (giornaliste unite libere e autonome) è una rete nata nel settembre 2011. E nell’anno che ci lasciamo alle spalle ha fatto tante cose. Su tutte la battaglia in parte vinta per un uso corretto del linguaggio nell’informazione. La parola femminicidio nella cronaca degli assassinii delle donne, siamo riuscite, con fatica, a farla apparire nei titoli di tigì e giornali.Abbiamo voluto che si dicesse con forza “Io non sono Sallusti”, presentando un esposto all’Odg Lombardia che lo ha sospeso; abbiamo deciso di non applaudire le donne soltanto per appartenenza di genere: dalla presidente della Rai, Tarantola, alle tre ministre del governo tecnico per la prima volta alla guida di importanti dicasteri: la ministra degli Interni Cancellieri, della Giustizia Severino e del Lavoro e Pari Opportunità Fornero. E al di là delle lacrime. Abbiamo voluto accendere, anche questo con fatica, il dibattito per un rinnovamento etico dell’informazione nei mass media, sia nei contenuti e nei comportamenti. Di un’informazione bene comune che come tale comprenda tutte le realtà che lo producono: reti rai e private, giornali, agenzie di stampa e internet, per un’informazione non al servizio dei poteri, ma al fianco delle cittadine e dei cittadini. Con altrettanta fatica, al nostro interno, si sta cercando di rendere concrete parole come democrazia e libertà di espressione, anche quando quest’ultima, è dissenso. Resta la fiducia che il 2013 sia l’anno delle donne, di tutte. Anche di quelle a cui non si vuol dar voce.