di Roberto Bertoni
Quella che si è conclusa lo scorso 21 dicembre sarà senz’altro ricordata come una delle peggiori legislature della storia repubblicana. Sarà ricordata, infatti, come la legislatura degli scandali (di Berlusconi e non solo) e dello spread, dei decreti legge e delle fiducie a profusione (sia da parte del governo Berlusconi sia, purtroppo, da parte del governo Monti), degli innumerevoli cambi di casacca (alcuni dei quali appartengono oramai al genere letterario) e del progressivo svuotamento dall’interno delle prerogative del Parlamento e dei princìpi costituzionali. Sarà ricordata, pertanto, come una legislatura barbara e per lo più sprecata, segnata dalle contraddizioni e dal fallimento di un centrodestra che nel 2008 aveva ottenuto una maggioranza di proporzioni mai viste ma che nel tempo, di fronte all’avanzare della crisi, si è rivelato completamente incapace di offrire risposte e soluzioni al Paese, fino a collassare definitivamente nel novembre del 2011, ponendo fine ad una stagione tra le più tragiche che l’Italia abbia mai conosciuto.
Tuttavia, ampliando lo sguardo ai fatti di costume e alle non meno importanti vicende internazionali, questa legislatura sarà ricordata anche per gli incredibili cambiamenti avvenuti a livello tecnologico e politico, con l’elezione e la rielezione di Obama a fare da collante tra i due aspetti. Nell’aprile del 2008, infatti, Berlusconi tornò a Palazzo Chigi in un mondo ancora soggetto all’egemonia del pensiero neo-liberista e con Bush alla Casa Bianca, con i social network che facevano a malapena capolino in America e non avevano praticamente varcato la soglia dell’Europa e con un’economia già profondamente in affanno ma non ancora sfibrata dall’esplosione di una catastrofe di proporzioni planetarie che in pochi anni ha cambiato equilibri politici, scenari globali e persino il nostro modo di pensare e di agire. A distanza di cinque anni, dunque, possiamo dirlo: era un altro mondo.
Non a caso, una delle maggiori responsabilità che vengono addebitate alla destra – non solo a quella italiana – è proprio di non aver saputo stare al passo coi tempi, di non aver saputo comprendere l’evoluzione del pensiero e dei sentimenti dei cittadini e di essere rimasta prigioniera di se stessa, dei propri schemi mentali ereditati dagli anni Ottanta e delle proprie modalità di comunicazione quanto mai antiquate e prive del dinamismo necessario in una società che attualmente si esprime anche con i centoquaranta caratteri di Twitter.
Senza contare le peculiarità del disastro italiano: dalle leggi “ad personam” alle aule parlamentari impegnate per mesi a discutere se Ruby fosse o meno la nipote di Mubarak; per non parlare poi degli attacchi sferrati dalla Gelmini e Brunetta, rispettivamente contro la scuola e il pubblico impiego, e dei tagli lineari di Tremonti, della sua concezione della cultura come un qualcosa con cui “non si mangia” e del dito medio perennemente alzato di Bossi, di scene da film di cassetta come il “pranzo riparatore” davanti a Montecitorio tra Alemanno, la Polverini (all’epoca governatrice della Regione Lazio) e i vertici leghisti, dopo le ennesime bordate del Senatùr contro Roma, e delle corse alla Camera di Scilipoti e dei ministri per evitare che il governo andasse sotto. Sarebbe un ritratto esilarante se nel frattempo non si fosse consumato il dramma di un Paese impoverito e abbandonato, screditato sulla scena internazionale e costretto ad assistere impotente alla chiusura di migliaia di imprese, alla perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro e, di conseguenza, ad un incremento esponenziale della disoccupazione giovanile e alla perdita di potere d’acquisto da parte delle famiglie.
Per questo, al di là delle immagini comiche che pure non abbiamo mancato di descrivere, è opportuno riflettere attentamente su ciò che è accaduto in questi anni, tra l’implosione di un modello di sviluppo oramai insostenibile e il diffondersi di un movimento di protesta – spesso liquidato superficialmente come anti-politica – che ha attraversato l’intero Occidente, presentandosi sotto varie forme a seconda del livello di indignazione e sconforto della popolazione. Tornando all’Italia, mai come in questi anni si è verificata un’autentica rivoluzione dal basso, con le piazze piene, quasi ogni giorno, di manifestanti e i palazzi del potere assediati e costretti, loro malgrado, a prestare ascolto ad una rivolta che non ha impiegato molto tempo a trasformarsi in proposta politica concreta e competitiva. A tal proposito, ci tengo a precisare che con questo discorso non mi riferisco tanto a Beppe Grillo, il cui populismo demagogico ha contribuito – a mio giudizio – ad avvelenare ulteriormente un clima già teso, quanto soprattutto a studenti e insegnanti, precari e donne, universo sindacale e immigrati e alla fine persino imprenditori e docenti universitari che, in alcuni casi, hanno deciso di mettersi in gioco in prima persona.
Quest’analisi spiega anche le ragioni della probabile vittoria del centrosinistra alle prossime elezioni: la coalizione guidata da Bersani, difatti, è in testa in tutti i sondaggi perché, a differenza di una destra gretta e presuntuosa, ha avuto l’umiltà di ascoltare le richieste dei cittadini e di cedere nuovamente loro sovranità, a cominciare da quella grande festa della democrazia e della partecipazione civile che sono state le Primarie.
Insomma, consentendo ai cittadini di dire la propria e ammazzando di fatto il “Porcellum”, il centrosinistra ha dimostrato di aver recepito e fatto proprio il dibattito che era da tempo in corso nel Paese. Un dibattito così ampio da riguardare tutti i temi di cui dovrà occuparsi il prossimo governo: dall’acqua pubblica alla scuola, dal nucleare alle energie rinnovabili, dai diritti civili ai diritti e alle tutele sindacali dei lavoratori, fino alla dignità delle donne, al contrasto al femminicidio e alla violenza domestica e alla rinascita di quell’idea di comunità solidale che per troppi anni è stata ignorata e considerata oramai stantia e da accantonare.
Personalmente, in questi cinque anni, ho partecipato e raccontato, su queste colonne e non solo, molti di quei movimenti, di quelle piazze e di quegli straordinari confronti civici cui ho avuto la fortuna di assistere; e devo dire che l’aspetto più positivo che ho avuto modo di riscontrare, in questa stagione di disaffezione e disincanto, è stata proprio la volontà di molti di noi di dire la propria, di dedicarsi attivamente alla politica, di entrare a far parte di un partito, di un movimento o di un associazione e tornare ad essere cittadini dopo il diluvio storico della solitudine e del disimpegno.
Per questo, è più che mai auspicabile la vittoria della coalizione “Italia Bene Comune”: perché fin dal titolo incarna la volontà di riappropriarsi di ciò che ci è stato sottratto e di guardare avanti, di dire addio agli eccessi di semplificazione che non hanno semplificato nulla sul piano burocratico e amministrativo ma, in compenso, ci hanno regalato la peggiore classe dirigente di sempre e di riscoprire i “pensieri lunghi” di Enrico Berlinguer che già trent’anni fa ci aveva messo in guardia dai rischi cui stavamo andando incontro, sollevando quella “questione morale” che si è rivelata una nemesi storica per tutti coloro che l’hanno colpevolmente sottovalutata o contrastata.