La signora seduta in terza fila in platea batte nervosamente i tasti del suo cellulare. È appena iniziato il secondo atto di “Tutto per bene” di Luigi Pirandello, diretto e interpretato da Gabriele Lavia al Teatro Argentina di Roma. È venerdì sera. La sala è gremita, come c’era da aspettarsi, trattandosi del Teatro con la T maiuscola. Ma, bando alle ovvietà, ciò che attira l’attenzione e fa riflettere è l’atteggiamento comune ad alcuni spettatori. La signora non è la sola, difatti, a controllare con insistenza il suo telefonino.
Qualche fila più indietro un giovanotto dall’aria stranita si affretta a far scorrere su e giù lo schermo del suo iphone. Non per disinteresse verso ciò che si è deciso – sia chiaro – di andare a vedere. Ma perché allora? Si domandano in molti. Cominciamo dal testo, lungi – per carità – snocciolare riflessioni da parte di chi critico teatrale non è. Eppure qualche riflessione è il caso di farla. Il protagonista di “Tutto per bene”, il dramma di Pirandello andato in scena per la prima volta il 2 maggio 1920 al Teatro Quirino di Roma con la compagnia di Ruggero Ruggeri, è Martino Lori. Un uomo sulla soglia dei cinquanta che, vedovo inconsolabile, scopre troppo tardi una realtà che era tutt’altra da quella che lui credeva fosse. L’amata moglie, passata a miglior vita da 16 anni, lo tradiva con il senatore Salvo Manfroni, datore di lavoro del marito e il frutto di quella passione era colei che Martino credeva sua figlia Palma. Realtà e finzione, verità e inganno a quel punto si fondono, si contrappongono e si capovolgono come di consueto accade in Pirandello.
Tematiche più che attuali che, nella moderna società impegnata nella corsa al pettegolezzo sui social network (Facebook in primis, senza trascurare Twitter e gli altri loro “gemelli”), rispecchiano spaventosamente la realtà. Ecco allora che anche assistere alla magnifica e – a tratti – quasi “sovrumana” performance di Lavia (straordinario in quel martellante “Silvia mia!” ogni volta che è chino sulla tomba di lei) può lasciare incorrere lo spettatore attento e appassionato dell’arte drammatica in piccole distrazioni, come quella di tenere gli occhi fissi sul proprio cellulare mentre di fronte a lui va in scena l’Arte.
Ma perché la gente va a teatro dunque? E cosa lega il pubblico di Lavia o di altri pluriacclamati artisti con il pubblico dei social network e degli utenti della moderna tecnologia informatica? A rispondere, in sala, è Ferdinando Maddaloni, attore di teatro, cinema e tv che debuttò proprio con Lavia nel “Macbeth” dell’87 al Teatro Greco di Taormina: «Il teatro era per i greci uno spettacolo di massa, molto sentito e vissuto da parte dei cittadini di ogni classe sociale e condizione economica, come si legge in tutti i manuali di Storia del teatro: esso era, infatti, un rituale di grande rilevanza religiosa e sociale, considerato uno strumento di educazione nell’interesse della comunità. Ecco credo che se agli applausi si accompagni il suono della tastiera di un telefonino vuol dire che c’è una cattiva educazione al teatro. Non nel senso di disinteresse verso l’artista che in quel momento sta recitando, ma una maleducazione al teatro». A dimostrarlo la signora che, in terza fila, appena cala il sipario corre via come se le fosse stata appena annunciata una disgrazia. Forse – penso – ha solo fretta di tornare a casa con l’autobus.