«E’ un caso che la nostra discussione cominci proprio il giorno dell’anniversario della Thyssen. Non è invece un caso che i nostri sette operai siano morti proprio nello stabilimento di Torino e non altrove: è nostra ferma convinzione che non potevano che morire qui a Torino».Così il procuratore Raffaele Guariniello ha cominciato l’esposizione dei dati d’accusa contro i sei dirigenti della Thyssenkrupp: non potevano che morire in corso Regina Margherita,a Torino, i sette operai, per tutti quei motivi che hanno portato alla condanna per omicidio volontario con dolo eventuale,prima sentenza in Italia che ha visto riconosciuto questo grave reato nel caso di morti sul lavoro. Parole nette, quelle di Raffaele Guariniello , in un giorno particolare, in un’aula di Corte d’Assise d’Appello particolare, dove le fotografie delle sette vittime si ergevano sugli ultimi banchi dell’aula, infilate nelle fessure dei tavoli lucidi per avvocati: una tensione che non è calata mai, mentre i magistrati facevano scorrere sul telo della proiezione, le ricostruzioni filmate del luogo e delle modalità di quella tragedia “annunciata”. in un fabbrica cioè, in stato di abbandono e dismissione, dove regnavano la mancanza di sicurezza, di igiene e pulizia, dove non c’erano sistemi di rilevazione antincendio e un adeguato piano di emergenza, dove non c’erano più le maestranze più esperte.
Il quinto anniversario dal rogo della Thyssenkrupp, che nella notte fra il 5 e il 6 dicembre 2007, provocò la morte di sette operai ,è trascorso così tra una rievocazione giudiziaria,puntigliosa, persino accorata dei magistrati ed una commemorazione al Cimitero Monumentale di Torino,nel silenzio di una fredda mattinata torinese. Là, in quel cimitero dove la lapide degli operai morti, i loro visi in fotografia sono quasi coperti dai fiori,mai appassiti , sempre profumati al punto da invadere i corridoi tra le tombe nuove o recenti di chi riposa in silenzio: quella notte di 5 anni fa Antonio Schiavone, si spense quasi subito. Agli altri Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo, Rosario Rodinò e Giuseppe Demasi toccarono giorni o settimane di agonia.
«Le parole sono inutili e non possono ridurre il dolore»: è toccato al sindaco di Torino, Piero Fassino dare inizio alla giornata di commemorazione dopo un piccolo corteo di parenti e autorità – preceduto dai gonfaloni di Città, Provincia e Regione- che si è diretto davanti alla lapide dove è stata deposta una corona di fiori . «È giusto venire qui – ha commentato Fassino- ogni anno oltre mille persone in Italia perdono la vita sul lavoro e questo è un prezzo enorme e tragico che una società moderna e civile non deve pagare».
Un messaggio che suona ancora più forte vista la concomitanza di date con la requisitoria dell’accusa nel processo e con la “Settimanadella sicurezza 2012”. Ieri, dopo il ricordo al Monumentale, si è affrontato proprio il tema “Cinque anni, salute, sicurezza, imprese e pari opportunità sul lavoro a 5 anni dalla tragedia Thyssenkrupp” in un incontro organizzato da “Sicurezza e lavoro” all’istituto Don Bosco di piazza Sassari. Non solo dati e cifre: “ogni giorno è un dolore per la loro mancanza,ogni giorno sento mio figlio vicino,ogni giorno mi alzo e voglio vedere le sue fotografie che tappezzano la mia casa”, ha detto Rosina Platì, mamma di Giuseppe Demasi, l’ultima delle vittime. Aveva 26 anni. «Questa mattina non avrei voluto alzarmi dal letto ma me lo sono imposta – ha poi continuato – l’ho fatto per raccontare ancora una volta che i nostri figli amavano la vita e sono qui perché loro non si possono difendere». Ma è stata poi Enza Pisano , la mamma di Roberto Scola, a riportare il tema della Thyssenkrupp, alla attualità:” Dopo 5 anni, purtroppo, si continua a morire sul lavoro e noi ci chiediamo. I nostri figli allora sono morti invano? Perché la tragedia della Thyssen non è servita a eliminare i morti in fabbrica, nei cantieri, nelle campagne? Non dovevano morire i nostri figli, ma ancora peggio è se il loro sacrificio non è servito a niente”.
Resta la giustizia: quella inchiesta fatta senza perdere tempo, quel processo arrivato in aula in pochi mesi, quella condanna a 16 anni per l’amministratore delegato della Thyssenlrupp, sono stati l’unica novità e l’unico sollievo per i parenti delle vittime. Il momento più importante nella giurisprudenza e nel senso comune, dimostrando che per chi non previene le morti sul lavoro per imperizia rischiando le vite degli altri, può arrivare anche una condanna pesante. E nuovamente , il 6 ed il 7 dicembre, la ricostruzione del rogo alla Thyssen ha riportato davanti alla Corte i vari passi di una inchiesta “esemplare”; «Questo è un processo importante – ha spiegato Raffaele Guriniello, il magistrato che in questo secondo grado di giudizio ricopre il ruolo di procuratore generale insieme ai sostituti Laura Longo e Francesca Traverso – non è il primo per infortunio sul lavoro, ma è il primo in corte d’Assise, non solo davanti ai giudici togati ma anche popolari, perché uno degli imputati (l’amministratore delegato Harald Espenhahn, ndr)è accusato di aver agito con dolo, seppure eventuale». E proprio ai giudici popolari (sei donne e tre uomini) il pm si è rivolto per sgombrare subito il campo da ogni dubbio sollevato in seguito alla dura condanna del primo grado peri 16 anni e mezzo di carcere inflitti all’ad Espenhahn: «Non abbiamo contestato il dolo per l’intensa commozione del fatto, o per dare una risposta alla richiesta di giustizia dei parenti delle vittime. Certo, sette uomini sono morti, sette famiglie sono state ferite in modo profondissimo. Ma il dolo non è stata una scelta emotiva o filosofica, bensì il frutto di una analisi dettagliata». E infatti «Quando abbiamo iscritto i primi nomi nel registro degli indagati nell’immediatezza dei fatti, noi abbiamo contestato solo i reati colposi. Sono state le indagini a imporci il dolo. Indagini condotte con una tempestività e un metodo inusuali per un infortunio sul lavoro: sono state le perquisizioni a farci scoprire perché sette lavoratori sono morti».
E per spiegare i tanti perché addotti dall’accusa, la parola è passata prima alla pm Francesca Traverso che ha proiettato un filmato con la ricostruzione digitale fatta al computer dello stabilimento della Thyssenkrupp (130 mila metri quadri) e della linea 5 dove si sviluppò il rogo (lunga200 metri) per far capire il complesso funzionamento dell’acciaieria dal punto di vista tecnico, e poi alla pm Laura Longo che ha cominciato, attraverso l’aiuto dei luicidi, a controbattere punto per punto ai motivi d’appello della difesa, partendo dal fatto che la decisione di chiudere corso Regina era stata presa già nel 2005, (e comunicata solo nel 2007), come risulta da un documento sequestrato nella borsa di Espenhahn, per risparmiare 40 milioni di euro, tra personale e riduzione del costo dell’energia. Ma dopo il blocco della linea dello stabilimento di Krefeld, all’arrivo di una importante commessa, i dirigenti Thyssenlrupp richiamarono al lavoro gli operai dello stabilimento torinese , senza però le garanzie di sicurezza necessarie, senza quella semplice pulizia della linea che avrebbe, ad esempio, impedito che le scintille prodotte dal “treno” delle lamine, diventassero incendio,provocando quelle fiamme che a loro volta,riscaldando dell’olio (che non doveva stare sotto la linea) ha infine provocato la vaporizzazione dell’olio bollente, diventato nuvola di fuoco che ha ucciso gli operai.
Sarà un processo determinante per capire se anche per le morti sul lavoro si dovrà in seguito seguire le procedure, il metodo d’indagine ,le imputazioni di omicidio volontario che comportano pene come i 16 anni inflitti all’amministratore delegato della Thyssenkrupp. Ma in attesa che l’intera relazione dell’accusa arrivi (in altre 5 o 6 udienze) alla conclusione ed alle richieste del pool di magistrati guidati da Raffaele Guariniello, ha fatto comunque tornare i brividi apparire in aula d’Assise d’Appello il cartello dell’accusa con un titolo che riassume tutta la tragedia di 5 anni fa: “Cronaca di sette morti annunciate” vi era scritto.
Tragicamente la stessa scritta si potrebbe scrivere anche sui feretri di gran parte dei quasi 1000 morti sul lavoro che ogni anno perdono la vita in Italia.