La conclusione ormai vicina, del processo Minotauro davanti alla corte d’Assise di Torino (che ha portato alla sbarra i capi della ‘ndrangheta piemontese) non ha stimolato finora né i canali televisivi né i maggiori quotidiani del paese a dedicare attenzione a un elemento diventato ormai chiaro per chi conosce il fenomeno mafioso nella penisola.
Trent’anni fa il procuratore capo della repubblica nella capitale subalpina, Bruno Caccia, fu ucciso dalla ‘ndrangheta calabrese, si arrivò subito a capire che era stata la ‘ndrangheta anche se in un primo momento le indagini avevano preso in considerazione che potessero essere state le Brigate Rosse contro le quali il magistrato aveva condotto negli anni settanta una dura battaglia con alcuni giovani sostituti tra i quali c’era Giancarlo Caselli.
E proprio in quegli anni – è emerso ormai con chiarezza dai lavori della commissione antimafia presente ancora in parlamento – la ‘ndrangheta approfittò dell’incarceramento dei mafiosi catanesi a Torino per diventare la più forte nel capoluogo pienontese e a poco a poco espandersi anche in Liguria e Lombardia, lasciando alla camorra campana l’egemonia soltanto in Campania e nel Lazio.
Oggi è chiaro dunque che nella federazione italiana e internazionale delle associazioni mafiose che domina completamente tre regioni meridionali (Campania, Calabria e Sicilia) ed è presente, in modo significativo, in molti paesi europei e nelle due Americhe, all’organizzazione calabrese è spettata l’egemonia nella parte settentrionale del paese e nelle regioni ricche in cui si può attuare meglio il riciclaggio del denaro illecito. Alla camorra si lascia il potere nella zona intorno a Roma che si divide con ogni probabilità con la mafia siciliana. A questo si aggiunge, peraltro, il dominio territoriale e vicino che tutte e tre le associazioni svolgono nelle proprie regioni di partenza.
In questa situazione che le relazioni di questo anno emerse dalla commissioni antimafia – che sono pubbliche e disponibili per tutti gli italiani, a cominciare dai giornalisti di tutte le testate, indicano con grande chiarezza, è significativo – mi pare – che gli organi di stampa dedichino uno spazio e un’attenzione così scarse a un processo da cui emerge, con grande chiarezza, la presenza nella parte più sviluppata e ricca della penisola del fenomeno mafioso nello stesso momento in cui il governo tecnico ancora in sella ripete per l’ennesima volta la propria decisa intenzione di combattere con energia il fenomeno mafioso sia al Sud che nelle regioni settentrionali.
La contraddizione sembra evidente ma nessuno negli organi di stampa sembra averlo notato in maniera adeguata. Accantonamento della realtà o incapacità di analizzarla? Lasciamo scegliere ai lettori ma da parte nostra crediamo che il problema non possa essere ignorato se si vuole ricostruire un paese oppresso negli ultimi vent’anni da un vento populista che soffia ancora con una certa forza nel nostro cielo.