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Morti in carcere. Il dossier dell’Osservatorio permanente

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di Osservatorio permanente sulle morti in carcere
Ogni anno 60 detenuti e 10 poliziotti penitenziari si tolgono la vita. Due suicidi su tre correlati a condizioni di vita (e di lavoro) fuori dalla legalità

Vedi la ricerca completa, corredata di grafici (pdf)

Vedi il Dossier “Morire di carcere”

La frequenza dei suicidi tra i detenuti è 20 volte superiore rispetto alla norma[1], mentre quella tra gli agenti penitenziari è 3 volte superiore alla norma e risulta anche la più elevata tra tutte le Forze dell’Ordine.

Di frequente il suicidio è legato a vicende personalissime, tuttavia un semplice studio comparativo ci fa ritenere che almeno i 2/3 dei casi sono correlati al “fattore ambientale”: non tanto per l’ambiente carcerario di per se stesso, quanto piuttosto per una condizione detentiva “al di fuori della legalità”.

Negli ultimi decenni le carceri italiane hanno vissuto una progressiva perdita di legalità, con l’intensificarsi del sovraffollamento e della “detenzione sociale” (tossicodipendenti, immigrati), con la diminuzione delle opportunità di lavoro interno, delle risorse economiche per il “trattamento dei detenuti”, del numero di personale penitenziario.

Angelo Antonio Aragosa, 48 anni è stato ritrovato impiccato la notte del 7 dicembre 2012 in una cella del carcere di Ariano Irpino. L’ennesimo suicidio di un detenuto, il 57esimo dall’inizio dell’anno, il 748esimo dal 2000 ad oggi. Ogni anno gli agenti di Polizia Penitenziaria (ed anche i compagni di cella) salvano oltre 1.000 detenuti da morte certa, quasi sempre per impiccagione. Senza questi interventi provvidenziali, le carceri italiane (“specchio della civiltà del Paese”) sprofonderebbero a livelli da Terzo Mondo.

L’opinione pubblica purtroppo è assuefatta e la politica altrettanto: un detenuto che si toglie la vita non fa “notizia”, il fatto che in carcere il suicidio sia 20 volte più frequente rispetto al complesso della società italiana sembra assolutamente “normale” perché giustificato dalla “inevitabile sofferenza” della detenzione. Anche tra il Personale di Polizia Penitenziaria la frequenza dei suicidi è 3 volte superiore alla norma e negli ultimi 10 anni quasi 100 poliziotti si sono uccisi.

Ma tutto questo è davvero “normale” ed “inevitabile”?

L’ESEMPIO DEGLI STATI UNITI

Dal 2001 al 2009 (10 anni) gli Stati Uniti hanno avuto una media di 2milioni di detenuti presenti e 1.783 suicidi in carcere[2]. In Italia, nello stesso periodo, con una media di 54mila detenuti presenti, abbiamo avuto 497 suicidi.

Con 1/37esimo della popolazione detenuta degli Stati Uniti abbiamo avuto quasi 1/3 dei loro suicidi… per la precisione in Italia la media annua dei suicidi è stata di 9,1 casi su 10mila detenuti, contro 1,6 su 10mila degli Stati Uniti.

Negli Stati Uniti fino a 30 anni fa il tasso di suicidio tra i detenuti era simile a quello che si registra oggi in Europa. La svolta avvenne nel 1988, quando il Governo istituì un Ufficio “ad hoc” per la prevenzione dei suicidi in carcere, con uno staff di 500 persone incaricate della formazione del personale penitenziario: in 25 anni i suicidi si sono ridotti dell’80%.

Le Amministrazioni che si sono succedute negli Usa, di destra e di sinistra, non sono state animate da “benevolenza” nei confronti di chi infrange la legge, tanto che il sistema penitenziario si è progressivamente espanso (oggi vi sono oltre 2.100.000 persone incarcerate ed altre 4,5 milioni in misura alternativa) ed in diversi Stati è ancora inflitta ed eseguita la pena di morte.

Tuttavia le stesse Amministrazioni hanno scelto di investire risorse economiche notevoli per la prevenzione dei suicidi e non hanno abdicato rispetto alla “conservazione del principio di legalità”. Leggiamo questa notizia: “La Corte Suprema degli Stati Uniti ha ordinato allo Stato della California la liberazione di 40.000 detenuti, in modo da ridurre la popolazione carceraria delle sue prigioni, che sono sovraffollate”. (Fonte: Afp, 23 maggio 2012).

E IN ITALIA?
Negli anni 60 la frequenza dei suicidi nelle carceri italiane era di 1/3 di quella attuale, quindi nel nostro sistema penitenziario, nonostante la Riforma dell’Ordinamento del 1975 e la Legge Gozzini del 1986 sembra sia avvenuto un percorso inverso rispetto a quello degli Stati Uniti.

CHE COSA È ACCADUTO DI DIVERSO?
In Italia la condizione di “legalità” delle carceri è venuta meno

1)      In 40 anni la popolazione detenuta è pressoché raddoppiata, mentre la capienza delle carceri è aumentata soltanto di 10mila posti.

2)      Le misure alternative (introdotte nel 1975-86) non hanno mai superato numericamente la detenzione in carcere: negli Stati Uniti, ma anche nella maggior parte dei Paesi Europei, il numero dei condannati in misura alternativa è doppio rispetto al numero dei detenuti, mentre in Italia abbiamo 67.000 detenuti e 20.000 condannati in misura alternativa.

3)      Le celle “singole”, dimensionate ancora in base al Regolamento di Igiene Edilizia delle Strutture ad Uso Collettivo (anno 1947!), misurano 8mq + 4 di bagno annesso, ma oggi sono occupate da 2 o anche 3 persone, il che ha comportato condanne all’Italia da parte della Corte dei Diritti Umani di Strasburgo.

4)      I condannati all’ergastolo hanno diritto a trascorrere la notte in una cella singola (art. 22 Codice Penale – Isolamento notturno), ma questo è impossibile per mancanza di spazi.

5)      Il lavoro nelle carceri, obbligatorio per i condannati (art. 20 legge 35/75), in realtà è una rara eccezione: a fronte di 38.000 detenuti con pena “definitiva” sono poche migliaia quelli effettivamente occupati.

6)      La Riforma della Medicina Penitenziaria (iniziata nel 1999 e tuttora in corso…), ha determinato il passaggio di competenze dal Ministero della Giustizia a quello della Sanità, ma in assenza di investimenti economici sufficienti da parte delle Aziende Sanitarie Locali ha di fatto peggiorato i livelli di assistenza per i detenuti ammalati (salvo poche lodevoli eccezioni).

7)      Sul fronte degli Operatori Penitenziari, anch’essi quotidianamente immersi in questo “bagno di illegalità”, anch’essi frequentemente vittime di suicidio, non si sono messe in campo politiche di “benessere organizzativo”, sempre per mancanza di risorse, ma anche per mancanza di adeguata cultura manageriale di chi pianifica le politiche penali.

Con questo quadro è facile concludere che i detenuti si uccidono a centinaia (e tentano di uccidersi a migliaia) in primo luogo perché percepiscono di non essere più portatori di alcun diritto: privati della dignità e della decenza, trascorrono la propria pena immersi in un “nulla” senza fine.


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