La categoria ha detto forte e chiaro il suo no al carcere nei casi di diffamazione. Ma il Parlamento ha tentato di approvare una legge capestro, contro la quale è stato programmato anche uno sciopero. Alessandro Sallusti è agli arresti domiciliari a casa della sua amica Santanché: lavora e da lì lancia strali contro la sua stessa categoria. Deve aver capito che la grazia del Presidente Napolitano probabilmente non arriverà. Nessuno ci fa una bella figura.
L’elenco è presto fatto. La legge che consente ai giudici di mandare in galera il giornalista che – facendo un uso distorto del diritto di cronaca – offende l’onore di una persona, è ancora lì ed è applicabile. Nessuno l’ha toccata.
Il direttore del Giornale, Sallusti, continua a lamentarsi, mentre le denunce per diffamazione si accumulano sul suo tavolo. Chissà perché non si scusa mai per i propri errori e non pubblica mai le richieste di rettifica quasi che non conoscesse le leggi (quella del ’48 sulla stampa e quella del ’63 sulla professione). Sembra convinto che un giornalista possa scrivere ciò che vuole, anche se offende e rovina la reputazione di persone per bene.
La categoria dimostra ancora volta di non avere le idee chiare. Lo dimostrano almeno due fatti: si batte per l’abolizione del carcere, ma rinuncia all’arma dello sciopero per mostrare la propria determinazione. Ai cittadini che messaggio dà? “Difendiamo Sallusti, come chiunque altro. No ai bavagli” dicono le nostre organizzazioni. Benissimo, ma intanto le rettifiche nessuno le pubblica, mai (come Sallusti!). Nessuno riconosce il sacrosanto diritto del cittadino a vedere pubblicata la propria versione dei fatti. E tutti poi si lamentano se la richiesta di danni è esorbitante e intimidatoria.
La credibilità così va in pezzi. Gli Ordini regionali non sanzionano chi diffama, come se fosse questione che deve interessare solo il giudice. Non si avvedono che, se la deontologia funzionasse meglio, si potrebbe – allora sì – chiedere al Parlamento di depenalizzare il reato e portare la questione sul terreno dell’etica e dell’errore professionale. Ma se l’autonomia e l’autodisciplina non ottengono alcun risultato è comprensibile che molti cittadini (pure quelli “onorevoli”) chiedano pene severe di tipo penale e civile.
La proposta di un Giurì, che risolvesse in modo onorevole le diatribe, è sempre caduta nel vuoto. Proviamo a ripresentarla. Proviamo a chiedere (lo abbiamo fatto spesso in questi anni) una vera riforma dell’organizzazione professionale, una legge all’interno della quale la diffamazione venga punita con equità e severità, senza pene restrittive, illiberali e incivili. Si può fare. Finalmente anche gli editori sembrano più sensibili e disponibili. Proviamo a chiederlo al nuovo Parlamento, quello che andremo ad eleggere fra poche settimane. Parecchie persone potrebbero portare un contributo. Ci pensi anche Sallusti. Lui ce l’ha a cuore il giornalismo? Ce l’ha un’idea per renderlo migliore e più autorevole? Ce la dica. Ma prima ci dica per favore perché, pur sapendo che Renato Farina era stato radiato dall’Ordine per aver preso soldi dai Servizi segreti ha continuato a pubblicare i suoi scritti, disonorati e disonorevoli. Libertà di stampa? Sì, ma usandola in questo modo, la libertà, si finisce per infangare e affossare la professione.