C’è più di un grido pasoliniano nel libro così intitolato che racchiude la bella e lunga intervista del Procuratore Aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, raccolta dai colleghi Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco (per le edizioni Chiarelettere): perché Pasolini scrisse quel “Io so” (parlando delle stragi fasciste nella Strategia della tensione degli anni ‘69-‘70) da acuto osservatore-scrittore di fronte a ricostruzioni della magistratura assenti o deviate o difficili da portare a compimento. Ingroia invece è magistrato ed ha condotto in prima persona (con un pool di magistrati della Procura di Palermo) le indagini sulle stragi di mafia e su quel periodo che dal 1992 al 1994, vide le bombe mafiose intrecciarsi con una trattativa aperta da organi dello Stato. Dunque Ingroia non è solo persona che “suppone” di ricostruire logicamente i fatti, ma ha in mano prove e testimonianze che possono non solo illuminare quel periodo, ma anche ricostruire in sede giudiziaria una verità processuale.
Sarà poi il tribunale di Palermo a scoprire queste carte e queste prove, se il giudice per le indagini preliminari deciderà il rinvio a giudizio: ma intanto il libro-intervista ad Antonio Ingroia chiarisce bene il filo logico di questa inchiesta cruciale per capire gli avvenimenti di quel periodo e della storia più recente del nostro paese. E la chiave sta nelle parole di Ingroia,dalla prima all’ultima pagina, là dove Ingroia risponde ad una domanda su quel “Io so” con queste parole:” io so che lo Stato ha avuto una responsabilità nella morte di Paolo Borsellino, e non mi riferisco soltanto a una responsabilità morale ed etica. Sono convinto che uomini dello Stato hanno avuto una responsabilità penale in quell’eccidio. Questo l’ho sempre pensato insieme ai familiari di Paolo Borsellino”.
E’ l’inizio e la conclusione del viaggio di Antonio Ingroia in quegli anni cruciali, in quella rottura di schemi nel rapporto mafia-politica e in quella trattativa tra Stato e cupola di “cosa nostra” che non partì, come spesso si crede, con la strage di Capaci, ma prima, con l’assassinio di Salvo Lima, del 12 marzo del 1992.
Perché quell’omicidio, eliminando per mano di cosa nostra il garante del patto tra mafia e potere democristiano che aveva governano la politica siciliana (ed italiana,per i riflessi di potere che aveva dentro la DC) da Portella della Ginestra in poi, genera il panico tra i potenti democristiani di allora. Il muro di Berlino era caduto ed anche il muro di impunità con il maxi-processo di Palermo che aveva superato il vaglio della Cassazione con le sue condanne definitive della cupola mafiosa: il blocco di potere che aveva unito la politica della Dc in chiave anticomunista con la mafia, i servizi deviati, la P2 di Gelli, il potere economico dei Sindona e Calvi, i settori stragisti della destra eversiva, si stava rompendo. Senza sponda atlantica, con l’inchiesta di Mani Pulite che faceva preludere la caduta della DC e del Psi, la mafia alza il tiro e rompe il patto con la politica: muore Lima e parte subito la richiesta di trattativa da parte di quei politici DC siciliani che si sentono nel mirino (e lo erano,il primo a morire sarebbe dovuto essere Calogero Mannino).
E la trattativa, afferma Ingroia, partì subito con i Carabinieri del Col. Mori che chiede a Ciancimino di attivarsi presso i vertici di cosa nostra; ma non solo, si muove nella stessa direzione ,anche il capo della Polizia, Parisi. Possibile tutto questo solo per salvare la vita ad alcuni politici siciliani? Risponde Ingroia: “ è possibile una cosa: che i primi approcci siano nati su imput e su ispirazione di chi aveva un interesse personale,di chi era più esposto. E che, avviati questi primi contatti,nel frattempo le cose siano diventate ancora più gravi: perché a quel punto è sopraggiunta la strage di Capaci. Quindi l’affare non riguardava più solo la sorte di uomini politici,ma l’intero Stato. In quel momento,irrompe sulla scena politica la ragion di Stato che dà una parvenza e una legittimazione apparente alla trattativa avviata. Non è la prima volta che ciò accade. La storia dimostra che per un uomo politico non di primissimo piano, come l’assessore Dc Ciro Cirillo, lo Stato scese a patti con la camorra”.
Una “ragion di Stato” per evitare altre stragi che sembra legittimare quindi quella trattativa con cosa nostra e quel successivo “papello” di incredibili richieste dalla mafia . Ma succede che Borsellino, un mese dopo la strage di Capaci, viene a sapere di questa trattativa e si mette per traverso: sta interrogando in gran segreto un pentito che sta svelando i componenti di quel “grumo” di potere che racchiude uomini dello Stato e mafiosi nel tentativo di ricucire una pace possibile perché, dice Ingroia “ la politica antimafia dello Stato italiano è sempre stata una politica di contenimento del potere mafioso,mai una politica di annientamento”.
Siamo all’inizio di luglio del 1992: Borsellino, convocato al Viminale, vede presentarsi Contrada, i cui legami con la mafia gli venivano svelati proprio in quei giorni dal pentito Gaspare Mutolo, mentre Parisi,capo della Polizia, ripone proprio in Contrada i suoi propositi di trattativa con cosa nostra, parallelamente al colonnello Mori. Borsellino capisce tutto, è d’intralcio a quella trattativa e si sente in pericolo,lo rivela ai familiari più stretti. E Riina, che aveva già ordinato a Brusca l’assassinio di Mannino , cambia idea improvvisamente, richiama la cupola e viene decisa la strage di Via D’Amelio proprio per eliminare Borsellino. Per eliminare l’intralcio alla trattativa, dice Ingroia, al punto da deviare anche l’inchiesta della magistratura con un falso pentito che deve eliminare la vera pista possibile (quella della trattativa,appunto) e la prova dei sospetti di Borsellino diventate tristemente certezza ,cioè la sua agenda rossa,mai trovata e mai presa dai mafiosi a Via D’Amelio, ma certamente da uomini dei servizi segreti.
Ma invece di interrompersi, quella trattativa continua e si rilancia. Nella stagione degli attentati del ’93-’94, si intrecciano bombe mafiose ad arresti eccellenti (Riina, Bagarella,Brusca sino ai Graviano) con la trattativa guidata a quel punto dai Carabinieri da un lato e da un’ala stragista dei mafiosi che si scontra con l’ala trattativista di Provenzano. Sempre per una Ragion di Stato che ufficialmente doveva interrompere le bombe mafiose, in realtà, nella ricostruzione di Ingroia e del pool di Palermo, doveva trovare un nuovo equilibrio politico. Ed è quello che avvine, quando entra in campa Dell’Utri, che sin dal 1992, stava lavorando a questa soluzione, sin dalla morte di Lima. Nel 1994 Silvio Berlusconi entra in politica, Dell’Utri diventa il fulcro di questo nuovo equilibrio politico che proprio nel 1994 chiude la fase stragista: quell’auto bomba allo stadio olimpico che non viene più attivata per un contrordine della cupola che aveva deciso la “sommersione” perché Forza Italia avrebbe garantito per loro.
Val la pena riprendere il brano del libro “Io so” che riassume questo cruciale momento della vita politica italiana, anche recente. Ingroia afferma: “La nostra ipotesi è che Berlusconi, nel suo ruolo di presidente del Consiglio, nel ’94 accetta la proposta che gli fa Dell’Utri per chiudere la trattativa, accetta cioè le richieste del boss Bernardo Provenzano e sigla un patto di “non belligeranza” con Cosa nostra. È la terza parte della trattativa, iniziata nel ’92 con il generale Mori, poi avallata nel ’93 dai massimi esponenti istituzionali come Scalfaro, Mancino e Conso, e nel ’94 infine consacrata con la decisione di Berlusconi che acconsente a offrire la sua copertura politica: niente più guerra a Cosa nostra. Da questo momento in poi, l’organizzazione criminale non può che ricavare numerosi vantaggi dalla mitezza dello Stato nell’azione di contrasto alla mafia. Il riscontro di questo accordo è contenuto nella legislazione nazionale che da quel momento appare coerentemente orientata a favorire costantemente gli interessi mafiosi. La trattativa, come patto di massima, si chiude nel ’94. Quello siglato da Berlusconi è un patto di tregua, di non belligeranza, non si sviluppa come il “papello” di Totò Riina con dei punti specifici. È una dichiarazione di disponibilità da parte dello Stato ad accogliere vie d’uscita pacifiche per risolvere la questione mafia. Ci sono molte trattative incompiute da allora. Il mancato arresto nel ’95 di Provenzano è una delle cambiali di questo patto. Noi, con la nostra ricostruzione, arriviamo fino al ’96. Ma la nostra è un’indagine ancora aperta, che si arricchisce continuamente di elementi”.
Non solo Rapisarda e Di Carlo, ma anche i collaboratori Pennino e Cannella parlano di un reinvestimento di denaro sporco da parte di Dell’Utri, nel periodo che va dal 1975 in poi (con riferimento, in astratto, sia al gruppo Berlusconi sia a quello facente capo a Rapisarda). Ma la prima sentenza d’appello su Dell’Utri, affrontando il capitolo delle holding di Berlusconi e analizzando le dichiarazioni dei quattro pentiti, ha concluso che dal ’75 in poi non risultano acquisiti “riscontri specifici” sul riciclaggio. Dopo l’annullamento della Cassazione, la Procura di Palermo riaprirà le indagini sulle holding berlusconiane, analizzando nuovamente il capitolo di un Dell’Utri possibile riciclatore per conto di Cosa nostra nelle società berlusconiane?
Non c’è prova che Dell’Utri abbia riciclato soldi per conto di Cosa nostra. Ma risulta dal processo Dell’Utri che Berlusconi fu a lungo incerto se scendere in politica o meno, e che, a fronte delle indicazioni contrarie alla sua discesa in campo da parte dei suoi consiglieri più autorevoli, il Cavaliere scelse la strada che gli indicò Dell’Utri. Siccome Dell’Utri non era a quel tempo né un politico né uno che si era occupato di politica, né risulta che non fu per valutazioni squisitamente politiche che si determinò il risultato della “discesa in campo” di Berlusconi, ma per il ruolo che Dell’Utri aveva all’interno di Cosa nostra. Evidentemente Dell’Utri ha mantenuto negli anni argomenti persuasivi nei confronti di Berlusconi. Quali siano stati, non si è mai definitivamente accertato nella logica giudiziaria. Né Berlusconi, rifiutandosi di rispondere alle nostre domande, lo ha voluto chiarire.
Berlusconi era a conoscenza, sin dall’inizio, dell’idea di costituire il nuovo partito?
No; anzi, dalla testimonianza di Ezio Cartotto risulta proprio il contrario. Quindi è escluso che Dell’Utri all’inizio agisse su mandato di Berlusconi. Ora, la domanda è: considerato che non era un politico e che non aveva mai fatto politica, Dell’Utri per conto di chi agiva, se non su mandato di Cosa nostra? La nostra ipotesi è che Dell’Utri stava costruendo i presupposti affinché nascesse questo nuovo partito, come nuovo punto di riferimento per Cosa nostra, per il quale poi convinse Berlusconi a scendere in campo. La tesi della procura, confermata dai giudici di primo grado, non confermata dalla sentenza d’appello recentemente annullata, è che quest’accordo (Forza Italia come punto di riferimento di Cosa nostra, così come emerge dalle dichiarazioni dei collaboratori Brusca, Giuffrè e Spatuzza) viene di fatto stipulato, e non può essere stipulato all’insaputa di Berlusconi.
Ed arriviamo ad oggi. Qui il libro lascia aperte molte considerazioni che lasciamo ai lettori. Ma un fatto è certo:quella storia di ieri ha risvolti attualissimi. Le P2 e P3 e P4 ancora agiscono e continuano ad inquinare la vita politica e sociale del nostro paese. Per questo è meglio leggere bene questo libro “Io so”, di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (ed. Chiarelettere) con la lunga intervista ad Antonio Ingroia: anche se attualmente in Guatemala per un incarico dell’Onu nella lotta alla criminalità ed al narco-traffico,il magistrato palermitano ricostruisce puntualmente la storia di questi anni. Con questo libro Ingroia dice d’aver concluso la sua esperienza di magistrato antimafia: per l’Italia e per tutti noi questo suo lavoro è molto prezioso per capire e per leggere il recente passato in chiave di costruzione del futuro. Per Ingroia, forse,un trampolino di lancio verso altre esperienze ed altri incarichi,magari in politica nel senso più proprio,stringente o largo del termine.