di Paola Caridi*
Non si può capire quello che sta succedendo in questi giorni attorno al palazzo presidenziale di Heliopolis, al Cairo, senza riandare con la memoria (storica) al referendum del marzo 2011. Un ‘episodio’ fondamentale, per le emozioni collettive degli egiziani: la prima volta, per la stragrande maggioranza degli elettori, in cui era piena e consapevole la convinzione che il voto del singolo e della massa degli elettori fosse finalmente libero
. Che quella scheda – pur nella confusione di una transizione politica e istituzionale guidata dalle stesse gerarchie militari del regime di Hosni Mubarak – potesse finalmente contare, per il futuro del paese.
Eppure, quell’emozione collettiva, piena, corale è stata il timbro sul peccato originale della rivoluzione egiziana. L’assenza di una transizione – per così dire – chiara e pulita. Al suo posto, da oltre un anno e mezzo, l’Egitto del post-Mubarak continua a mettere cerotti su un assetto istituzionale a cui manca l’ingrediente fondamentale: la rinascita dalle ceneri del precedente regime. È evidente, per una italiana, il riferimento storico alla Repubblica sorta dalle ceneri del fascismo. Certo, c’era stata una guerra. Ma in Egitto c’è stata una rivoluzione, e dunque quella necessaria cesura che serve a buttar giù alcuni pilastri della precedente struttura e a salvarne comunque alcuni che servono a non far cadere tutto.
Fuor di metafora, è chiaro che nessuno si sarebbe atteso – come non è successo neanche nell’Italia post-bellica – un azzeramento di settori fondamentali dell’impalcatura istituzionale come esercito, magistratura, forze di sicurezza, burocrazia. Ci sarebbe voluta, però, un po’ di seria epurazione, e soprattutto non ci si poteva attendere una transizione vera, reale, profonda e concreta senza l’allontanamento di tutte le figure chiave del regime Mubarak.
Non è successo. Il referendum del marzo 2011 è stato un referendum su emendamenti costituzionali decisi da un gruppo di personalità scelte dalle alte gerarchie militari che erano parte integrante del precedente regime. Allora, tra coloro che votò sì, c’erano anche fior di (giovani) leader della rivoluzione, perché pensavano che votare sì avrebbe abbreviato il tempo dei militari al potere. Non è stato così. Anzi, l’inclinazione al compromesso per evitare il peggio e finire in fretta la transizione è stata – col senno di poi – la madre di tutti i mali di questo periodo che non possiamo definire post-rivoluzionario.
È stato controproducente fare le elezioni politiche in quel modo, e le elezioni presidenziali in quel modo. Soprattutto, è stato deleterio non seguire la linea classica delle transizioni: eleggere un’assemblea costituente dotata di tutti i poteri non solo necessari a costruire ex novo un assetto istituzionale diverso, ma anche a gestire politicamente una delicata fase di passaggio.
Il risultato è quello che vediamo: un paese spaccato che vive la crisi peggiore della sua contemporaneità. Un paese in cui nessuno ha legittimità piena e riconosciuta, proprio perché la storia nazionale, dal febbraio 2011, è una lunga e deprecabile sequenza di cerotti, toppe, compromessi, mali minori. Mohammed Morsy non è considerato un presidente legittimo non solo per quel decreto costituzionale che ha ricordato troppo da vicino Mubarak. Ma anche, se non soprattutto, perché quel 51% di consensi ottenuti contiene anche molti voti dell’opposizione, costretta a scegliere tra Morsy e un cascame del vecchio regime come Ahmed Shafiq. Con quel decreto, insomma, Morsy ha tradito in primis quel fronte rivoluzionario che gli aveva accordato una fiducia a tempo, ed estremamente instabile: ha tradito, insomma, quel tacito accordo tra gentiluomini per il quale Morsy avrebbe avuto sempre bisogno del fronte rivoluzionario, per andare avanti.
Dal canto suo, il fronte rivoluzionario stesso non può pensare di essere il depositario della rivoluzione, e di non tenere nel debito conto quella maggioranza silenziosa e stanca che è la massa di manovra della presidenza islamista e, in particolare, di chi sta guidando dietro le quinte le ultime mosse attorno al palazzo presidenziale, e cioè chi veramente conta dentrola Fratellanza Musulmana.Il fronte rivoluzionario – e con esso il futuro prossimo dell’Egitto – ha pagato a caro prezzo non solo un atteggiamento elitario, ma soprattutto le spaccature di un movimento per forza di cose non aggregato, magmatico, dalla vita ancora troppo giovane. L’errore politico fondamentale di non aver avuto un candidato di Tahrir unico alle presidenziali, che ora sarebbe di certo al posto di Morsy, è un errore sul quale il fronte rivoluzionario dovrebbe riflettere con profondità, e una abbondante dose di autocritica.
Così come dovrebbe riflettere, il fronte rivoluzionario, sul fatto che c’è un unico attore che in questo momento può a suo modo gioire per quello che sta succedendo, ed è il regime di Mubarak. Quello che resiste dentro i settori fondamentali dello Stato, come pezzi di esercito, magistratura, polizia.
Premesso tutto questo, no c’è dubbio che c’è un responsabile che porta su di sé il peso di quello che sta accadendo. Ed è Mohammed Morsy. Morsy il presidente, ma anche Morsy esponente del vertice dei Fratelli Musulmani. È in questo doppio ruolo che Morsy ha aperto il vulnus più profondo e pericoloso della rivoluzione. Pensava di regolare i conti con quel pezzo di magistratura che nei decenni precedenti aveva usato il pugno duro verso i Fratelli Musulmani, e verso l’uomo ora più importante, Khairat al Shater, messo in galera e processato da un tribunale militare durante l’ultimo scorcio del regime Mubarak. Pensava di regolare i conti, senza comprendere che l’Egitto dopo Tahrir aveva sperimentato, proprio attraverso Tahrir, la sua forza. E la strenua volontà di non volere – e non potere – tornare indietro.
Morsy il presidente ha usato metodi simili a quelli di Mubarak. Morsy il membro dell’Ikhwan ha usato una logica tipica dei movimenti clandestini, antropologicamente tribali: proteggere il movimento. Risultato: quello che è successo tra mercoledì e giovedì attorno al palazzo presidenziale è gravissimo. L’attacco violento e armato di uomini che sembrano proprio appartenere al servizio d’ordine dei Fratelli Musulmani è ingiustificabile, grave, pericolosissimo. Perché utilizza lo strumento dei propri uomini, dei pretoriani, per difendere il proprio potere. La domanda è, insomma, verso chi o che cosa si è leali: l’Ikhwan, il potere, o lo Stato? L’analisi di Hani Shukrallah sulla struttura dei Fratelli Musulmani, sull’ala vincente, sulla trasformazione dell’Ikhwan, che è possibile leggere su Al Ahram, è impeccabile
Tanto è evidente, l’errore, che oggi è stato necessario schierare l’esercito per riportare ognuno al proprio ruolo. Chiunque conosca l’Egitto, però, sa bene che richiamare l’esercito – in una situazione così compromessa dal vizio d’origine – vuol dire riportare la storia dell’Egitto al punto di partenza. Di nuovo i militari a gestire l’ordine. È molti, non a caso, hanno richiamato un paragone pericoloso: la Battaglia dei Cammelli, senza cammelli. E a far la parte dei disturbatori c’era il servizio d’ordine della Fratellanza Musulmana.
Mala tempora.
Fonte: http://invisiblearabs.com
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