Pubblichiamo di seguito l’intervento della deputata Pd Anna Paola Concia in merito al suicidio del ragazzo romano quindicenne avvenuto il mese scorso
Di Anna Paola Concia*
In questi quattro anni e mezzo di vita parlamentare ho sopportato molte frustrazioni: ho sopportato l’accusa di essere troppo passionale nel condurre la battaglia contro l’omofobia e la transfobia e per l’affermazione dei diritti sacrosanti delle coppie omosessuali. Ma essere accusata di coprire l’omofobia quella no, mi mancava. Al peggio e al meglio non c’è mai fine, diceva mia madre. Sono sempre pronta al peggio ma vorrei che costruissimo anche il meglio.
Una settimana fa, dopo che un giovanissimo ragazzo di un liceo romano si è tolto la vita, sono andata subito nella sua scuola. Ho parlato con i compagni di classe, con i professori, la preside, i genitori. L’ho fatto per capire e per aiutare, perché ho il dovere di farlo. Perché quella morte mi riguarda, riguarda tutti noi, nessuno escluso. Le istituzioni, la scuola, i mass media, la nostra disastrata società. Ci ho messo un po’ a decidere di scriverne, ho letto molte cose in questi giorni su giornali, blog, social network; alcune le condivido e altre no. Quello che più mi ha colpito è stato l’orrendo compattarsi in granitici schieramenti opposti: tra chi della morte di quel ragazzino dà la colpa all’omofobia e chi invece afferma che le ragioni siano altre.
Chi di noi può giudicare, sapere, conoscere i sentimenti profondi di un adolescente ancora bambino, alla ricerca di se stesso, alle prese con i suoi cambiamenti e desideri dirompenti? Alle prese con l’impatto con il mondo esterno, quello degli adulti, dei suoi coetanei, dei mass media. Un mondo, una società incancrenita nel sistematico e quotidiano disprezzo per la diversità, qualsiasi essa sia. Parlando con i compagni di classe di Andrea ho trovato bambini adolescenti smarriti e impauriti, assolutamente impreparati ad affrontare l’impensabile: il suicidio di chi sedeva loro accanto ogni giorno. Impreparati ad affrontare le ragioni, quelle vere, quelle presunte, le responsabilità. Ho cercato con dolcezza (sì, con dolcezza) di spiegare loro cosa sia il bullismo, cosa sia il disprezzo dell’altro, della sua diversità, sia essa l’omosessualità (vera o presunta non importa) o di altro tipo.
Quanto sia pericoloso e quanta attenzione ci vuole per non ferire. La diversità (la chiamo così perché è giusto avere rispetto) di Andrea, i suoi compagni, i suoi professori la vedevano, la conoscevano, non l’hanno negata. Ma – come forse anche Andrea – non trovavano le parole per dirla, non sapevano nominarla, non sapevano come affrontarla. L’hanno gestita come hanno potuto e saputo fare: a volte maldestramente, violentemente, superficialmente, a volte invece accogliendo, o facendo finta di niente. E fuori da quella classe, nella scuola come nel mondo, quel senso di maldestra protezione sarà venuto meno. Il quadro che mi sono fatta è questo, e so con certezza che la scuola come le istituzioni hanno il dovere di fare, di agire, per non lasciare soli i ragazzi di fronte a tutto ciò: educare al rispetto della diversità.
Per questo ieri ho presentato con la mia collega Elena Centemero una interrogazione parlamentare al Miur su questo argomento. Governo e Parlamento invece devono costruire strumenti legislativi che facciano crescere tutti. Ma noi che siamo nelle istituzioni abbiamo anche il dovere di educare la società attraverso il nostro esempio e attraverso il nostro linguaggio. E un ruolo costruttivo possono rivestirlo i mass media, nel non proporre stereotipi antichi. Come è evidente, il bullismo, anche omofobo, si combatte tutti insieme. Per questo lo scaricabarile della responsabilità di quella morte dolorosissima è penoso. Non parlo della madre di Andrea, ho troppo rispetto del suo immenso dolore per giudicare.
Ho risposto con durezza in questi giorni: perché sì, lotto contro l’omofobia e la transfobia, ma so che non si contrasta accusando dei bambini adolescenti di essere degli assassini. Non mi auto-assolvo, è troppo facile e comodo. Per questo chiedo a tutti in modo accorato di sentire il peso di quella morte, sia che sia stata causata dal disprezzo della sua diversità vera o presunta o per altre ragioni. So che quel peso fa male, e per questo viene rifiutato e ribaltato sugli altri. No, io lo tengo con me, facendo in modo che quella morte, come tante altre simili, illumini le mie azioni e parole quotidiane: che io sia un’insegnante, che io sia un membro delle istituzioni, che io sia un giornalista, che io sia un genitore: i giovani ci guardano e imparano a stare al mondo.
Tratto da l’Unità del 29 novembre 2012