Capita di imbattersi in notizie che sconcertano e fanno pensare. Per esempio quella resa pubblica dal garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Nove mesi fa, l’11 febbraio scorso, nel carcere di Regina Coeli muore un detenuto di trent’anni, probabilmente vittima di un’overdose. Prima di lui, dall’inizio dell’anno, erano morti sedici detenuti: per suicidio, per malattia o per cause da accertare. Dopo di lui sono morti altri 84 detenuti: è una strage quotidiana quella che si consuma nelle carceri italiane; e sono almeno dieci volte tanti i detenuti che vengono salvati dagli agenti della polizia penitenziaria. Tiziano, così si chiamava il detenuto morto l’11 febbraio, da allora è un numero. La procura di Roma ha disposto, come la legge prevede per casi del genere, l’autopsia per capire le cause della morte. Dall’11 febbraio il corpo di Tiziano è custodito in condizioni precarie in un deposito del cimitero di Prima Porta. Un morto dimenticato, perché non si capisce bene che cosa impedisca la restituzione del corpo alla famiglia, che chiede solo di poter portare un fiore sulla sua tomba.
Una vicenda che definire assurda è poco. Com’è possibile che dopo nove mesi non si sia ancora completata l’inchiesta sulla morte di una persona e il corpo non sia restituito alla famiglia?
Veniamo ora alla seconda notizia. Ricordate Erich Priebke? E’ stato condannato, ieri, a sborsare quattromila euro. E’ una vicenda piuttosto tortuosa: Priebke e il suo procuratore a suo tempo citarono il presidente della Comunità ebraica Riccardo Pacifici e chi scrive, sostenendo di aver diritto a un risarcimento per ingiuria e violenza privata che sarebbero stati commessi ai suoi danni. I fatti oggetto della causa traevano origine dal processo penale a carico di Priebke per l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Il 1 agosto del ’96, il Tribunale militare di Roma aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti di Piebke in relazione all’eccidio per intervenuta prescrizione. Dopo la lettura del dispositivo, si erano verificati in aula vari disordini ed erano state proferite ingiurie sia al presidente del Tribunale che a Priebke. Secondo l’accusa, con altri, ci si sarebbe schierati in maniera tale da impedire ai componenti del Tribunale, all’imputato e ai difensori di uscire dalla camera di consiglio.
Erano state così ritardate – secondo l’accusa – le formalità di scarcerazione e successivamente Priebke veniva arrestato su richiesta di estradizione della Germania. La Corte d’appello di Roma, nel 2007, aveva respinto il ricorso di Priebke e ora la Cassazione ha dichiarato “l’improcedibilità del ricorso”, condannando il legale a sborsare 4 mila euro di spese per il giudizio.
Ora, al di là del merito, che qui non interessa esaminare: la vicenda in questione è accaduta “solo” dodici anni fa. Dopo dodici anni la Cassazione mette la parola fine a una vicenda che fin dal primo momento appariva chiara: le accuse nei confronti di Pacifici e di chi scrive erano assolutamente infondate.
Terza notizia: basta con il “nazionalismo” all’anagrafe e i divieti per i nomi che provengono da culture e paesi stranieri: ormai il ‘melting pot’ è una realtà anche in Italia e sono antistorici i giudici che impongono ai neonati un nome diverso da quello scelto dai genitori solo perché è estraneo alla nostra cultura. Lo dice la Cassazione restituendo a padri e madri la libertà di chiamare i figli con il nome che preferiscono. Il primo nome ‘sdoganato’ dal recinto che lo voleva destinato solo ai maschi, è Andrea: i supremi giudici, con la sentenza 20385, hanno stabilito, infatti, che è ora di considerarlo un nome ‘neutro’, come avviene in tanti paesi europei ed extraeuropei. Con questa decisione, la Suprema Corte ha accolto la protesta di una coppia di genitori di Pistoia contro la Corte di Appello di Firenze che il 3 agosto 2010 aveva disposto la rettifica del nome ‘Andrea’ che avevano dato alla loro bimba sostituendolo con quello di Giulia Andrea.
La Cassazione, dottamente, rileva che il nome Andrea “anche per la sua peculiarità lessicale non può definirsi né ridicolo, né vergognoso, se attribuito ad una persona di sesso femminile, né potenzialmente produttivo di una ambiguità nel riconoscimento del genere della persona cui sia stato imposto, non essendo più riconducibile, in un contesto culturale ormai non più rigidamente nazionalistico, esclusivamente al genere maschile”; la Cassazione inoltre ricorda che il nome ‘Andrea’ ha “natura sessualmente neutra nella maggior parte dei paesi europei, nonché in molti paesi extra-europei tra i quali gli Stati Uniti, per limitarsi a un ambienter culturale non privo di influenze nel nostro paese, unita al riconoscimento del diritto di imporre un nome di provenienza straniera al proprio figlio minore nei limiti del rispetto della dignità personale”.
Tre gradi di giudizio, per una vicenda nata nel 2010: il diritto di poter chiamare i propri figli con i nomi che più si ritengono opportuni…Per ricapitolare: un’inchiesta che dorme, e una famiglia che non ha dove piangere il suo morto; un processo che si conclude dopo sedici anni, e si poteva chiudere in mezza mattinata. La libertà di chiamare una figlia Andrea. Le conclusioni le tiri il lettore. La sua amarezza è la nostra.