Il racconto del biennio ’92-94 dentro la “Memoria” depositata dai magistrati a sostegno dell’indagine
“Nella storia delle indagini antimafia degli ultimi anni, questa è di certo una delle più sentite, perché ha costituito il momento più alto del contributo che la Procura di Palermo ha offerto alla ricerca della verità sulla stagione” stragista di Cosa nostra. Così i magistrati Lia Sava, Antonino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia, coordinati dal procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, descrivono l’indagine sulla “scellerata” trattativa Stato – mafia nella “Memoria a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio” presentata ieri in vista dell’udienza preliminare che si terrà il prossimo 15 novembre a Palermo. Una vicenda, quella del “dialogo a colpi di bombe” fra Cosa nostra e pezzi di Stato che viene raccontata da collaboratori di giustizia, da alcune sentenze, Caltanissetta e Firenze, sulle stragi del ’92 e del ’93 e da un “testimone privilegiato”, Massimo Ciancimino, figlio del sindaco di Palermo, Vito, condannato per mafia e poi deceduto nel novembre del 2002.
Nella memoria a sostegno dell’indagine condotta dall’ufficio di Palermo, coordinato da Ingroia, si ricostruiscono i contorni storico – giudiziari e politico – istituzionali delle trattative fra Stato e mafia. “Una vicenda raccontata da una doppia visione. da punti di vista diversi: i collaboranti, dall’angolo visuale di Cosa Nostra e, dall’altro lato, gli uomini dello Stato”. Un’inchiesta, quella sui cui dovrà pronunciarsi il Gip a breve, che è frutto – spiegano i magistrati dello stralcio dal procedimento penale chiamato “Sistemi criminali”. E’ dentro questa inchiesta, poi archiviata, che si evincevano le “ambasciate” che Riina faceva pervenire allo Stato e che si risolvevano nella minaccia di proseguire omicidi e stragi qualora non fossero state accolte alcune richieste di benefici in favore di “Cosa Nostra”. L’inchiesta “Sistemi criminali” negli ultimi anni più volte è tornata al centro del dibattito pubblico nella ricostruzione dei rapporti, non solo nazionali, fra pezzi di mafia e pezzi di economia e Stato.
Dal 1992 al 1994, un dialogo a colpi bombe. E’ con l’omicidio di Salvo Lima, della corrente adreottiana della Dc siciliana, nella primavera del 1992 che i mafiosi, stretti fra un cambiamento storico – sociale (come quello avvenuto in tutto il mondo dopo la metà degli anni ’80) e uno repressivo, scaturito dall’attività investigativa del pool di Palermo che portò a indagini e condanne del maxi processo, decisero di chiedere conto alla politica, di ripristinare un meccanismo che era saltato, quello in cui la mafia “convive” con lo Stato. E governa una parte di territorio, con profitto. Questo accade, secondo la ricostruzione fornita dai magistrati di Palermo, fra il 1992 e il 1994. I boss lo fecero con il linguaggio che ritenevano più efficace, quello della violenza. Così all’omicidio Lima seguono la strage di Capaci e via D’Amelio e negli anni successivi quelle di Firenze, Roma e Milano. Assomiglia alla teoria dei cerchi concentrici la strategia criminale utilizzata da Cosa nostra, da Riina in una prima fase, per ottenere un nuovo equilibrio vantaggioso per la mafia e piegare lo Stato. A partire dall’omicidio di uomo simbolo della Dc anno dopo anno, si allarga e coinvolge tante insospettabili leve che si muovono – scrivono i pm – in nome di una “male intesa Ragione di Stato”.
Un’amnesia durata vent’anni. Serve nel recente passato un “testimone privilegiato” come Massimo Ciancimino, scrivono i pm, fonte di prova dalla controversa attendibilità intrinseca (visto che in questo processo assume anche la veste di imputato del delitto di calunnia) per far emergere fatti, notizie e in ultima istanza i ricordi venuti meno a causa di una sorta di “amnesia collettiva”. Così la chiamano i pm in questa Memoria che spiega fra l’altro passaggi chiari e convergenti che caratterizzarono il biennio 92 – 94, cioè da quando la trattativa nasce al raggiungimento degli obiettivi. E come ha dichiarato anche Ingroia “si tratta degli unici vertici, i più alti, cui questa inchiesta poteva mirare in una situazione di isolamento istituzionale nella quale ha dovuto operare”. Dal 1992, dunque, i mafiosi Toto Riina, capo dei capi di Cosa nostra, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e Antonino Cinà, in seguito Bernardo Provenzano, decidono di «fare la guerra allo Stato per poi fare la pace».
Ad aprire questo dialogo a scopi investigativi sarebbero stati il comandante del Ros, il generale Antonio Subranni, il suo vice, il colonnello Mario Mori, e il capitano, Giuseppe De Donno, a loro volta investiti dal livello politico (ed in particolare dal sen. Calogero Mannino, all’epoca ministro in carica ed esponente politico siciliano di grande spicco). Furono loro – secondo i magistrati a contattare Vito Ciancimino, a sua volta in rapporti con Salvatore Riina attraverso il medico, Antonino Cinà nel 1992, nel pieno dispiegarsi della strategia stragista. Nello stesso periodo Mori si sarebbe attivato attraverso una seconda pista che i magistrati individuano nel tramite del maresciallo Roberto Tempesta e Paolo Bellini, con i capi di Cosa Nostra lungo il parallelo asse costituito da Antonino Gioè e Giovanni Brusca. La trattativa, attraversa anche fasi complesse, in cui le cose per Cosa nostra si metteranno molto male. L’inasprimento del 41 bis e il governo tecnico guidato da Ciampi, a loro insaputa, ostacoleranno i piani dei boss. In questa fase, come spiegano i magistrati, la garanzia della “trattativa”, coloro che la “traghettano” attraverso la prima e la seconda Repubblica ma soprattutto, verso il 1994, a nuovi patti, saranno i funzionari, il livello amministrativo.
Cosi scrivono nella Memoria: “Tre sono gli uomini degli apparati che hanno fatto da anelli di collegamento fra mafia e Stato: Mori, De Donno e il loro superiore all’epoca Subranni. Due sono gli uomini politici, cerniera, cinghie di trasmissione della minaccia: Mannino prima e Dell’Utri dopo. Poi c’e’ Massimo Ciancimino, imputato di concorso esterno in associazione mafiosa per il suo ruolo permanente di tramite fra il padre Vito e Bernardo Provenzano. Due sono, infine, gli uomini di Governo, l’allora ministro della Giustizia, Giovanni Conso e il politico Nicola Mancino, sui quali si è acquisita prova di una grave e consapevole reticenza e che in questa indagine è imputato per falsa testimonianza”. “Conso – continuano i magistrati – con l’allora Direttore del Dap, Adalberto Capriotti e l’on. Giuseppe Gargani sono tuttora “soltanto“ indagati per false dichiarazioni al Pm, esclusivamente in ossequio alla previsione di legge che impone il congelamento della loro posizione in attesa della definizione del procedimento principale”. Un ruolo di “concorrenti” al reato lo hanno anche uomini delle istituzioni, oggi scomparsi ma che appaiono nella fase centrale della trattativa e che sono “l’allora Capo della Polizia Vincenzo Parisi, il vice direttore del Dap Francesco Di Maggio, che, agendo entrambi in stretto rapporto operativo con l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, contribuirono al deprecabile cedimento sul tema del 41 bis”.
Il patto Stato – mafia giunge al 1994 ed è qui che i mafiosi trovano l’accordo che blocca le stragi. Nel 1992 la trattativa si sarebbe stata avviata anche per salvare la vita ai politici che Cosa nostra voleva uccidere. Nel 1993 si dipana intorno alla richiesta da parte dei boss di alleggerimento delle condizioni carcerarie, del 41 bis. E in parte ottiene il risultato di 300 mancati rinnovi di questo provvedimento. Poi arriva il 1994, e tutto cambia. “Brusca e Bagarella fecero recapitare, attraverso il canale Mangano – Dell’Utri, l’ultimo messaggio intimidatorio […] si completò, in tal modo, il lungo iter di una travagliata trattativa che trovò finalmente il suo approdo nelle garanzie assicurate dal duo Dell’Utri – Berlusconi (come emerge dalle convergenti dichiarazioni di Spatuzza, Brusca e Giuffre’) – si legge nella Memoria dei magistrati. Per quale ragione di Stato “maleintesa” si sono verificate le stragi del 1993 e gli omicidi del ’92? Per quale patto fra mafia e Stato sono cessate. Per conto di chi lo Stato è sceso a patti con la mafia. Questi gli interrogativi che rimangono aperti e che il procedimento su cui dovrà pronunciarsi il Gip, Piergiorgio Morosini il prossimo 15 novembre, potrebbe aiutare a chiudere con le risposte che a causa di questa “amnesia collettiva” vent’anni dopo non abbiamo ancora.
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