Ad un anno dalla sua scomparsa e, innanzitutto, a pochi giorni dall’atteso shopping librario del Natale, rispuntano al centro delle vetrine saggi dedicati al genio del grande Steve Jobs. Noi, però, ne proponiamo uno che va controcorrente e che, anzi, si intitola, senza mezze misure, “Contro Steve Jobs”, un libretto veloce e leggero (anche nel prezzo) edito dalla torinese Codice (www.codiceedizioni.it). L’autore è il blogger e ricercatore universitario americano Evgeny Morozov collaboratore di alcune delle più importanti testate giornalistiche del mondo e certamente non sconosciuto qui in Italia, dato che i suoi interventi sono spesso ospitati dal Corriere della Sera.
Tenendosi a distanza dalla frenesia e la voracità affaristica con cui tutte le altre case editrici hanno affollato le librerie di saggi celebrativi dell’informatico statunitense, già un giorno dopo la sua scomparsa, al fine di sfruttare commercialmente l’emozione globale per l’estremo evento, Codice edizioni, con la necessaria lucidità, ha voluto investigare, infatti, la portata rivoluzionaria della Apple e del suo creatore in termini di marketing e propaganda consumistica. La “versione” di Codice e Morozov ha avuto tutto il tempo, quindi, per riflettere anche sulle contraddizioni ed i difetti del personaggio, al di là degli slogan e dei quadretti celebrativi. In poco più di 100 paginette da leggere tutto d’un fiato, Morozov dà sfogo al suo punto di vista partendo da un interrogativo che fissa come centrale e fondamentale: “Steve Jobs è stato un filosofo che ha tentato di cambiare il mondo (come tentava di apparire, n.d.r.), oppure è stato un genio del marketing?”. Per il titolo con cui si presenta il libretto, si può facilmente intuire a quali conclusioni giunga l’autore; ma ciò che è interessante sono le argomentazioni, precise e lucide, che sviluppa in queste pagine, corredate da numerosi riferimenti ad articoli ed interviste giornalistiche del passato anche recente, per sostenere la propria tesi. Anche se possono non convincere, Morozov si palesa, comunque, come uno dei critici più documentati e appassionati della storia di Jobs (purtroppo non molto lunga) e di Apple.
Morozov parte dalla ossessione di Jobs, e dei suoi più stretti collaboratori, per la “purezza” e l’ “essenza” che, nell’universo “Apple”, coincidono con l’architettura ed il design. Più dei contenuti e delle novità tecniche, in tutti questi anni, Jobs dimostra di essere interessato principalmente alla “bellezza” e, quindi, all’offerta di prodotti piccoli, belli, bianchi, “puliti”, minimalisti, ispirandosi alla filosofia funzionalista del design tedesco del movimento Bauhaus che fa coincidere forma ad essenza. Per Morozov la “genialata” della Apple è stata quella di riuscire a costruire la più grande illusione del secolo “saldando marketing e filosofia ed autorizzando così i propri consumatori a sentirsi i veri protagonisti della storia”, non solo una “tribù” (come si usa dire oggi), ma, ancor di più, “una specie di elite storico-spirituale”, sebbene sia composta da milioni di consumatori sparsi in tutto il mondo: “è come se l’acquirente di un prodotto Apple fosse indotto a credere di essere arruolato in una missione storica di portata mondiale rivoluzionaria”. Sin dalle prime sfornate di computer, Jobs e co. hanno sfruttato a pieno le potenzialità di un nuovo stile della creatività messa al servizio della promozione commerciale, facendo costantemente appello al “significato della vita”. La controcultura degli anni Ottanta cominciò a sognare ad occhi aperti anche grazie a Jobs, racconta Morozov: la rivoluzione informatica, fu venduta, infatti, come una speranza ed opportunità di decentralizzazione del potere, tema sempre caro, ovviamente, alla sinistra di tutto il mondo…
La “magia” di Jobs starebbe, quindi, nella capacità di lanciare campagne contro il capitalismo utilizzando gli strumenti preferiti del capitalismo, sino ad essere eletto “paladino del popolo”, investito ed autoinvestitosi di una missione civilizzatrice, “colui che stava portando la libertà al popolo” seppur il più abile a destreggiare gli strumenti autoritari del marketing: “per buona parte degli ultimi dieci anni la Apple non ha venduto solo prodotti; ha venduto una terapia basata sulla tecnologia” sintetizza in chiusura Morozov.
Steve Jobs sarà stato un “genio”, per Morozov quasi esclusivamente del marketing, ma occorre ammettere come la sua figura abbia preso sempre più le sembianze di una “macchina capitalistica” da miliardi di dollari che riesce a orientare i gusti delle masse e sfrutta la mano d’opera a basso costo della Cina, cancellando, tra l’altro, tutti i programmi filantropici della propria azienda. È stato un sognatore che infiammava le folle, ma anche un capo dispotico che esasperava i dipendenti, portandoli persino alle lacrime, come hanno raccontato in quest’ultimo anno anche altri libri.