In quel famoso scatto che ritrae la coppia di magistrati “eroi” sorridenti c’era anche lui. Era appena stato eletto nelle fila del Partito Repubblicano Italiano alla Camera dei Deputati. Poco dopo gli altri due soggetti di quella foto sarebbero passati a miglior vita nel giro di due mesi l’uno dall’altro. Giuseppe Ayala racconta questo e tanti altri aneddoti di vita vissuta insieme a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in “Chi ha paura muore ogni giorno”, scritto dallo stesso Ayala con la collaborazione di Ennio Speranza, la direzione e produzione artistica di Gabriele Guidi, la collaborazione al progetto di Massimo Natale, le musiche di Roberto Colavalle e Matteo Cremolini e le proiezioni di Alessia Sambrini, che ha debuttato venerdì 2 novembre al Teatro Vittoria di Roma. Protagonista ininterrottamente sul palco l’ex sostituto procuratore della Repubblica di Palermo, oggi 67enne, riporta sulla scena gli amici di sempre, Giovanni e Paolo, come li chiama ogni volta che fa il loro nome rivolgendosi al pubblico. Un Falcone e un Borsellino inediti, umani, rivisti come fossero sul palco insieme a lui grazie alla straordinaria forza interpretativa di Ayala, che non è attore in senso stretto, ma che riesce a trasmettere ad una platea attenta fino al calare del sipario l’affetto che per anni unì i tre magistrati. E allora ecco il ricordo dolce e struggente nella sua semplicità di Falcone che, quando andava a cena in casa Ayala, scherzava con Vittoria, la figlioletta del collega, che rispondendo al citofono diceva “pronto”: “Scusa, tu sei una donna, no? E allora come devi dire?”. E la risposta – divertita – della piccola, che ritornava per la seconda volta, era una sola: “Pronta!”. Racconti che regalano sorrisi al pubblico. Ma anche spunti di riflessione su ciò che ha significato l’impegno di due giudici che hanno pagato con la vita questo stesso impegno. «Falcone e Borsellino – dice Ayala – non sono stati fermati dalla mafia, ma dalle istituzioni dello Stato e non nel 1992, ma a partire dal 1988”. Verità che, a distanza di vent’anni, sono ancora scomode per molti. «Perché – si chiede l’ex deputato del Partito Repubblicano – lo Stato non ha fatto sentire il suo potere come quando è stato assassinato Aldo Moro ed ha sferrato un colpo contro le Brigate Rosse? Perché per il maxi processo a Cosa Nostra sono stati impiegati appena sei mesi per costruire l’aula bunker all’Ucciardone di Palermo? Questi sono esempi di come quando lo Stato vuole, fa sentire il suo peso». Ai ripetuti j’accuse contro le istituzioni si alternano – nel corso di una performance che è una specie di dialogo con se stesso allargato al pubblico in sala – i ricordi degli anni passati. Delle cene a casa Falcone-Morvillo, della prima volta che Ayala incontrò il suo amico Giovanni (nel settembre dell’81 alla Procura di Palermo), di quando erano insieme al ristorante la sera in cui una telefonata li avvisò dell’agguato al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e a sua moglie Emanuela Setti Carraro e dell’ostilità che si respirava intorno a Falcone nello stesso palazzo dove ogni giorno lui e Borsellino dimenticavano di essere uomini, padri e mariti perché sommersi da faldoni di inchieste. Una morte, quella del giudice Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e degli uomini della scorta, cui seguì due mesi dopo quella dell’amico di sempre Paolo. «Erano più che amici, c’era una sintonia impressionante tra loro. L’arma con cui andavano avanti ogni giorno? L’ironia. Con quella riuscivano anche a scherzare su fatti di mafia». Ancora una volta a far sorridere gli spettatori è un aneddoto: «C’era un mafioso che dovevamo interrogare. Sapevamo tutto di lui, il clan cui era legato, il nome, finanche il soprannome, ma non il cognome. Lo chiamavano l’incazzato. Paolo si sbagliò un paio di volte, interrogando un’altra persona. Un giorno mi disse “sai che quello però era incazzato sul serio? In fondo, tu come ti sentiresti se ti venissero a svegliare all’alba per portarti in Procura? Incazzato, no?”. Ecco, questo era Borsellino».
Lo scorrere dei ricordi, sapientemente accompagnati dalla lettura di atti giudiziari, articoli di giornali e testimonianze a cura di Francesca Ceci, tratteggia le figure di uomini come Antonino Caponnetto, Rocco Chinnici e Pio La Torre, ma anche di pentiti storici come Tommaso Buscetta, prelevato dalla sua residenza in Brasile per dare avvio al maxi processo contro ben 462 mafiosi. Ma su tutto emerge – prorompente – la realtà. «La partita tra mafia e Stato è truccata – rimarca con tenacia Ayala – perché nell’una e nell’altra squadra giocano calciatori con la stessa maglia. Ecco perché ancora non siamo riusciti a sconfiggere la mafia. Perché è all’interno dello Stato». Verità inderogabile che, come commenta sottovoce uno spettatore in prima fila, dovrebbero essere spiegate nelle scuole. Perché la memoria resti nelle menti delle giovani generazioni. Come sottolinea anche l’albero di magnolia illuminato di volta in volta grazie al gioco di luci creato da Pietro Sperduti.