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Nel deserto per risvegliare le coscienze

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Si è conclusa con una marcia nel deserto di Gerico la Missione di pace in Israele e Palestina, organizzata dalla Tavola della pace e dal Coordinamento degli Enti Locali per la pace e i diritti umani. Un’iniziativa per conoscere la realtà di un conflitto cancellato dai media, ma anche un’occasione per riflettere sul vuoto di valori che ha prodotto la crisi globale in cui vive il mondo. (foto Roberto Brancolini) Dal punto più basso della terra, per dare una spinta a risalire.  “Voglio raccontarvi il mio dramma personale, che è il dramma di molti di noi”. Così il sindaco di Gerico, la città più antica del mondo, come recitano orgogliosi i cartelli all’ingresso del centro, apre l’incontro di riflessione con cui la Missione di pace 2.0 tira le fila di una settimana di esperienze sul campo in Israele e Palestina. Hanna Saleh prosegue il suo racconto spiegando che la sua famiglia, moglie e figli, vivono in Egitto con passaporto giordano. Incontrarli è quasi impossibile e Saleh vive nell’angoscia che, se a qualcuno di loro dovesse succedere qualcosa, se fosse necessario provvedere alla sepoltura magari di suo figlio, oltre al dolore immenso, lui, che come sindaco di una città importante della Cisgiordania ma anche un politico conosciuto e influente, non saprebbe cosa fare, non riuscirebbe a trovare un angolo di terra per seppellirli. Perché loro non hanno la carta di residenza palestinese, ma non sono né egiziani né giordani. “Pensate – conclude – alla sofferenza di un Palestinese che non sa dove vivere né dove morire”. Parole che introducono bene il confronto tra i pacifisti italiani , venuti fino a Gerico, il punto più basso della terra con i suoi oltre 400 metri sotto il livello del mare, per ragionare su quanto sia finito in basso la coscienza del mondo, e magari trovare lo slancio per tirarsi fuori dal pantano, risvegliare i valori addormentati. Un confronto che, nel deserto dove duemila anni fa si era ritirato Gesù per riflettere, non si limita alle parole e alle promesse. La mattina dopo, di buon ora, ci si mette in cammino per raggiungere il monastero di Wadi Kelt, in bilico dentro uno sprofondo nascosto tra le montagne di pietre e sabbia che coprono una parte consistente del territorio concesso dagli accordi di Oslo all’Autorità nazionale palestinese, e nei fatti mai consegnati. Centosessanta persone, di tutte le età, tanti i giovani e giovanissimi, si dipanano per un sentiero appena tracciato a strapiombo tra le rocce. Il silenzio è interrotto dalle voci che si rilanciano avvertimenti e messaggi; il colore uniforme di questi monti si tinge con i colori delle bandiere della pace e i cartelli con le scritte dei ventuno valori che questa missione vuole portare a casa come patrimonio da rilanciare. Una edizione inusuale della Marcia per la pace, che abitualmente occupa i 24 chilometri di strada da Perugia ad Assisi. Proprio per questo, in un’epoca di vuoto culturale e ideale, c’è maggiore forza in questa marcia di pochi, che prendono su di sé la responsabilità della testimonianza. Non finisce qui, infatti, questa spedizione di volonterosi. Il lavoro vero, la missione di cui si sono fatti carico partendo dall’Italia una settimana fa, inizia ora, al rientro a casa. Parlate di quanto avete visto, ci hanno chiesto tutti, dai ragazzi dei campi profughi di Betlemme, al sindaco israeliano di Ramla, alla pacifista Nomika Zion, che vive a Sderot e si batte contro una nuova guerra. Perché questa è, oggi, l’unica prospettiva vera che si percepisce nell’aria: un nuovo conflitto, non è ben chiaro con chi, ma Israele vive già pensando a questo. E i Palestinesi si preparano a subirne le conseguenze. Perché anche se non saranno coinvolti direttamente, le scarse possibilità di costruire convivenza tra i due popoli diventerebbero nulle.


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