Tre anni fa affollavamo piazza del Popolo per sventare la legge sulle intercettazioni. Tre anni dopo ci stiamo chiedendo se sia necessaria una replica, per fermare lo sciagurato proposito di una “riforma” della diffamazione in cui settori cospicui del Parlamento hanno travasato la voglia di bavaglio fin qui insoddisfatta. Forse i contrasti dentro la “strana maggioranza” bloccheranno tutto; forse l’imminente fine della legislatura porterà consiglio.
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Ma la semplice eventualità di un ritorno in piazza dice da sola che, nonostante l’uscita di Berlusconi da Palazzo Chigi, i rischi che gravano sull’informazione rimangono pressoché immutati, come uguale a se stesso è l’assetto delle comunicazioni.
Acquasparta dovrà servire anche a rimuovere in profondità la rischiosa percezione per la quale l’avvicendamento dei governi ha risolto automaticamente i nodi che stringono il pluralismo dei media. Le prove, purtroppo, sono numerose, e vanno ben oltre i temi in discussione nelle aule parlamentari (dove tra l’altro, a fine novembre, tornerà all’ordine del giorno anche l’evergreen intercettazioni).
La concentrazione delle risorse pubblicitarie non si è minimamente ridotta, in un mercato in recessione, ma il tema del Sic (il Sistema Integrato delle Comunicazioni, cuore e portafoglio della legge Gasparri) non è stato neanche sfiorato dal governo Monti, che delle liberalizzazioni e della lotta a monopoli e oligopoli ha fatto una delle sue bandiere. Quanto alle frequenze, il ministro Passera ha sì disposto l’annullamento dell’assegnazione gratuita, annunciando invece un’asta pubblica dalla quale ricavare fondi per le casse dello Stato. Ma i tempi e le modalità di questa asta, e i prezzi di vendita delle frequenze, restano ancora da definire. E la vicenda de “La7” è lì a ricordarci la possibilità che il nuovo proprietario venga dall’orbita Mediaset.
Intanto si stanno spegnendo a decine le emittenti locali: la miscela composta da calo degli spot più passaggio al digitale si sta rivelando micidiale per il settore. Torna alla mente il richiamo lucidissimo contenuto nel messaggio che, già dieci anni fa, l’allora Presidente della Repubblica Ciampi inviò alle Camere: “il pluralismo e l’imparzialità dell’informazione non potranno essere conseguenza automatica del progresso tecnologico”. Erano in tempi in cui si cominciava a parlare dello switch-off, e la moltiplicazione del numero dei canali era indicata come la soluzione magica da tutti coloro che non volevano intervenire sul conflitto di interessi. La quantità di canali è cresciuta, il pluralismo no.
Nella carta stampata non è cresciuta nemmeno la quantità, ma allo stesso modo chiudono le voci dell’editoria cooperativa, di idee, di partito, di associazione. Stanno arrivando le nuove regole, quelle norme di pulizia che in tanti abbiamo invocato per anni contro i Lavitola di ogni colore: ma rischiano di arrivare senza finanziamenti, perché soffia forte il vento (soffia da Monti e da Grillo, che talvolta sono meno lontani di quanto appaia) che considera uno spreco ogni intervento pubblico nel settore.
Sulla riforma della Rai, la rinuncia di Monti alla modifica della Gasparri è stata appena mascherata dal decisionismo sfoggiato all’atto di indicare Presidente e Direttore Generale. Ma rimane intatta la necessità di regole che sottraggano il servizio pubblico al governo di turno (vale oggi come ieri), e l’attesa per i segni di una visibile, positiva discontinuità nella programmazione delle reti Rai e nel recupero delle professionalità emarginate in questi anni.
Neanche in rete si respira un’aria diversa: il dibattito sulla diffamazione ha riportato a galla un livore censorio che vede in Internet un pericolo da contrastare, più che una gigantesca opportunità di pluralismo comunicativo. Ed è rimasta fin qui senza risposta la domanda di trasparenza avanzata al governo da decine di associazioni, gruppi, esperti che hanno proposto l’introduzione anche in Italia del Freedom Of Information Act, per un accesso libero agli atti delle pubbliche amministrazioni che avrebbe anche un potente effetto anti-corruzione.
Su questi temi non c’è ormai da aspettarsi granché dal governo Monti, ma c’è un dovere di proposta per le forze politiche che dicono di voler governare domani. Nel chiedere attenzione non ci sentiamo inguaribili “novecenteschi”, incapaci di guardare avanti. L’assetto democratico dei media, al contrario, è questione modernissima, senza la quale non c’è nemmeno quell’efficace contrasto ai populismi nel quale le istituzioni europee dicono di volersi impegnare. C’è un gran lavoro da fare, ed Acquasparta sarà una tappa importante.