Una storia di gusto e di cultura
A scorrere le pagine scritte da ambasciatori e viaggiatori europei che
visitarono la corte del sultano ottomano tra il Quattro e il Settecento sembra
che a Istanbul non sia mai esistita una grande cucina. Tali autori notano, e
spesso ammirano, la morigeratezza a tavola degli ottomani e sono concordi
nell’affermare che i turchi utilizzavano il cibo per vivere e non viceversa, che
non sapevano apprezzare i piaceri della tavola, che non indugiavano in
banchetti allietati da musica o spettacoli, come avveniva invece presso le
altre corti europee, bensì mangiavano in fretta e in silenzio.
Partendo da queste premesse e dal fatto che i primi ricettari a stampa
fecero la loro comparsa solo nell’Ottocento, quando dilagava nell’Impero la
moda francese, gli storici della gastronomia sono soliti affermare che non
esistette una cucina creativa ottomana, nonostante la quantità di prodotti a
disposizione e i contatti con culture culinarie diverse. Si sostiene che la
grande cucina ottomana è un mito, su cui indugiano solo gli scrittori turchi nel
tentativo di costruire una tradizione che non fu mai realtà. Al massimo si parla
in generale della società turca, discesa da pastori erranti nella steppa
eurasiatica, e dei suoi usi alimentari attribuendole il solo merito di aver
inventato il fast food, lo spuntino veloce, utile a interrompere il digiuno
durante una giornata tutta dedicata al lavoro.
Le fonti che hanno dato luogo a una simile interpretazione sono certo
degne di fede, eppure è possibile trovare anche altre testimonianze. Esistono
ricettari antichi, ma spesso ancora manoscritti, in quanto la stampa comparve
tardi nell’impero e la gastronomia era un’arte che si tramandava oralmente. I
documenti riportano nomi di piatti, quantità di cibi acquistate per il palazzo
imperiale o per grandi famiglie, calmieri di prezzi per le derrate alimentari,
resoconti di processi e descrizioni di feste organizzate per celebrare i fasti
dell’Impero e dimostrare così che il sultano era un padre amorevole che
nutriva i suoi sudditi. Inoltre le fonti europee devono essere lette da
un’angolatura diversa, che tenga conto innanzi tutto della cultura ottomana e
non solo di quella italiana, francese o inglese come era quella degli autori dei
resoconti presi in esame.
Così si scopre che la cucina ottomana seppe trarre vantaggio dai contatti
che ebbe con culture gastronomiche diverse, da quella iranica a quella
arabo-islamica, da quella greco-bizantina sino a quelle fiorite nella zona
balcanica e nel nord-Africa. Diversa da quella in uso nelle corti europee era
però l’etichetta, che prevedeva si mangiasse in silenzio e si tenessero
separati il momento di mangiare da quello del bere, attribuendo al primo un
carattere quasi religioso. Inoltre i due pasti forti della giornata erano la prima
colazione e la cena della sera, a cui raramente si ammettevano estranei,
soprattutto se provenienti da paesi lontani e di diversa religione e cultura.
Altra cosa era il veloce spuntino di mezzogiorno, utilizzato appunto per
interrompere il lavoro e ritemprare il corpo, creduto però dagli ambasciatori
stranieri il vero e proprio “banchetto del sultano”.
Diversa era infine la scala di valori e simboli legati al cibo. Certi piatti, come per esempio quelli a base di pollame, erano offerti agli ospiti di riguardo per il significato simbolico che si
voleva trasmettere e non per poco riguardo e assenza di cibi più raffinati.
Partendo da tali considerazioni questo volume intende modificare il
pensiero corrente, dimostrando che quella ottomana fu una gastronomia
molto più raffinata di quanto si sia generalmente conosciuto fino ad oggi, che
seppe recepire l’influsso di altre civiltà e altri gusti, appropriarsene e creare
una commistione nuova e originale che può essere appetibile anche oggi.
La grande cucina ottomana– di Maria Pia Piedani con una scelta di ricette ottomane a cura di Antonio Fabris
Mulino editore