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La Catalogna al voto sogna l’indipendenza

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di Valerio Refat
Se i sondaggi relativi alle elezioni catalane di domenica dovessero tradursi in realtà, l’integrità territoriale della Spagna sarebbe a rischio come non mai. Travolta da un debito superiore a 43 miliardi di euro, schiacciata da una disoccupazione più che triplicata in quattro anni e ormai pari al 22,5 per cento, l’ex locomotiva iberica è pronta a premiare il separatismo spinto del presidente uscente Artur Mas, nella convinzione che l’autonomia da Madrid rappresenti l’unica ricetta in grado di portare la regione fuori dalla crisi. Nel caso in cui Mas e i suoi alleati dovessero indire, come promesso, il referendum sull’autodeterminazione, per la prima volta dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale, i confini di un Paese occidentale potrebbero subire delle modifiche.

La posta in gioco è altissima anche per il futuro dell’Unione Europea, tanto che nei giorni scorsi il vicepresidente della Commissione Ue e responsabile della Giustizia, Viviane Reding, si è affrettata a chiarire che per Bruxelles sarebbe impossibile riconoscere l’indipendenza unilaterale della regione. Stessa musica nelle parole di un altro vicepresidente della Commissione, il socialista spagnolo Joaquin Almunia, fermo nel ricordare che Madrid non esiterebbe a mettere il veto su un’eventuale richiesta di adesione all’Ue formulata da Barcellona.

Se il Psoe, del quale Almunia è stato una delle personalità di punta, sostiene, assieme ad alcuni segmenti nazionalisti, che la soluzione del conflitto deve passare per una riforma federalista non troppo distante dal modello tedesco, diversi pesi massimi dei popolari al governo fanno la voce grossa. Ad iniziare da José Maria Aznar, primo ministro dal 1996 al 2004, il quale in un’intervista televisiva ha dichiarato che “mai esisterà una Catalogna unita fuori dalla Spagna”. Il ministro per l’Educazione José Ignacio Wert, si è spinto oltre, affermando la necessità di “spagnolizzare i catalani” e un’associazione di militari è arrivata a minacciare la legge marziale nel caso di frattura dell’unità territoriale.

Scontato il no alla secessione anche da parte della Confindustria, che prevede centinaia di aziende pronte a trasferirsi altrove se dovessero prevalere i separatisti. E un appello contro ogni progetto di indipendenza è stato sottoscritto da una folta pattuglia di economisti e intellettuali guidati dal regista Pedro Almodovar e dallo scrittore Mario Vargas LLosa.

Nonostante l’imponente fuoco di sbarramento capeggiato da re Juan Carlos, il movimento indipendentista, forte del milione di persone scese in piazza lo scorso 11 settembre per invocare la secessione da Madrid, prosegue dritto per la sua strada. Nelle sue uscite pubbliche Mas ha accentuato le accuse al governo centrale, responsabile a suo giudizio di aver provocato il collasso del modello catalano attraverso una politica di tagli dissennati che hanno aggiunto benzina sul fuoco dello scontro relativo ad un sistema fiscale da sempre inviso a Barcellona: la Catalogna trattiene solo una parte delle tasse versate dai contribuenti, mentre una parte sostanziosa finisce al ministero del Tesoro che le distribuisce tra le restanti regioni. Nel 2010 la Corte Costituzionale ha bocciato il nuovo statuto autonomistico e i recenti colloqui durante i quali Mas ha esposto al premier Mariano Rojoy le rivendicazioni di Barcellona, sono naufragati immediatamente dopo i convenevoli.

A pochi giorni dal voto del 25 novembre, i sondaggi riservano al blocco indipendentista una percentuale vicina al 70 per cento, con Convergencia i Uniò, partito guidato dal presidente della Generalitat catalana poco al di sotto della maggioranza assoluta di 68 seggi. A questi si sommerebbero i seggi dell’ERC, formazione storica dell’indipendentismo di sinistra, e quelli dell’ICV, altro raggruppamento favorevole ad indire il referendum sulla secessione. In caduta libera i grandi partiti tradizionali: secondo le ultime rilevazioni Ppe e Psoe insieme non raggiungerebbero i 40 eletti.


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