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Tra i due Sudan accordo di facciata

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di Davide Maggiore
Fanno la guerra, e la travestono da pace. Juba e Khartoum, Sudan e Sud Sudan, in questo si assomigliano, nonostante un conflitto divida dal 1956 quelle che fino al luglio 2011 erano due parti dello stesso Paese. Da Addis Abeba è arrivata, lo scorso 27 settembre, la notizia di un accordo tra i governi, concluso grazie alla mediazione dell’Unione Africana: eppure le grandi questioni che provocano instabilità sulla frontiera tra i due Stati restano ancora irrisolte.

La prima riguarda, in effetti, il tracciato stesso dei confini. Formalmente, questi dovrebbero rispettare la linea di demarcazione tra le due entità stabilita il 1° gennaio del 1956, quando il Sudan, allora unito, ottenne l’indipendenza. Nei fatti, tuttavia, la demarcazione è un’operazione ancora da completare, che gli accordi di Addis Abeba affidano a una commissione congiunta tra i due Paesi, integrando il trattato di pace (noto come CPA) concluso nel 2005 tra il governo di Khartoum e i ribelli sud-sudanesi dell’SPLA-M. L’organismo bilaterale dovrebbe essere costituito entro 15 giorni dalla ratifica degli accordi nei due parlamenti nazionali, e iniziare i lavori entro due mesi, con altri tre per concluderli, anche se resta aperta la possibilità di proroghe concordate. E probabilmente inevitabili: mentre ancora i colloqui erano in corso, L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati segnalava gli attacchi condotti, per l’ennesima volta, dalle forze armate nord-sudanesi nella regione di confine del Kordofan Meridionale, assegnata dai trattati alle autorità di Khartoum. Qui – come anche nell’area del Nilo Azzurro – agiscono le forze ribelli dell’ SPLM – Nord, composte da combattenti che, durante l’ultima stagione (dal 1983 al 2005) della lunga guerra civile, si erano schierate con le forze ‘sudiste’, ma i cui territori di origine non sono stati compresi tra quelli poi sottoposti a Juba.

Secondo il governo nord-sudanese, proprio Juba finanzierebbe l’SPLM – Nord; in maniera simmetrica, dall’altro lato della frontiera non si risparmiano accuse verso i ‘nordisti’, che sarebbero gli ispiratori di sigle guerrigliere attive sul territorio del più ‘giovane’ vicino. Intanto, non accenna a diminuire il numero dei profughi e degli sfollati che hanno dovuto abbandonare le loro case a causa della crisi politica e militare: sul solo versante sud-sudanese sono oltre 200 mila, secondo le Nazioni Unite. La demarcazione, insomma, dovrebbe essere portata avanti in un’area che è persino ottimistico definire turbolenta: in questo contesto è ancora tutta da verificare, inoltre, la possibilità di dar vita a un’area de-militarizzata e a una gestione congiunta di quella che viene definita ‘frontiera soft’, entrambe previste dagli accordi di Addis Abeba. Eppure proprio il consenso alla smilitarizzazione è stato indicato, nei giorni successivi alla firma, come il successo più rilevante (o meglio, l’unico) ottenuto dalla comunità internazionale. I cui rappresentanti più potenti avevano però già ottenuto da tempo un obiettivo che stava loro molto più a cuore, ed aveva a che fare con il petrolio.

L’oro nero era la principale risorsa del Sudan unitario, e anche una delle ragioni dell’intransigenza di Khartoum sulle richieste degli indipendentisti: i pozzi che si trovavano in territorio ‘sudista’ fornivano all’ex-Stato più esteso d’Africa il 75% del reddito nazionale, andato perduto con la secessione. Ciò che restava al Nord ridimensionato era però l’unico oleodotto capace di portare il greggio al mare ed alle grandi petroliere: per l’uso di questa struttura era nata una battaglia sui ‘diritti di transito’ dovuti da Juba. Il cui governo aveva deciso, all’apice della crisi, di bloccare la produzione petrolifera, mettendo di fatto in ginocchio entrambe le economie. La mediazione si era infine raggiunta all’inizio di agosto, con grande soddisfazione di Hillary Clinton, che proprio in quei giorni compiva una visita di Stato in diversi Paesi africani. Ma certamente non solo il Dipartimento di Stato americano ha gioito per la fine del braccio di ferro: la Cina, gigante ormai non solo politico ma anche economico, ha a sua volta importanti interessi nel settore petrolifero di entrambi i Paesi. Anche la seconda questione lasciata irrisolta dagli accordi di Addis Abeba, a prima vista un altro ‘semplice’ problema di confini, ha però a che fare con il greggio: si tratta dello status della regione contesa di Abyei, ricca di petrolio. A decidere del suo destino sarebbe dovuto essere un referendum, nel gennaio 2011, contemporaneo a quello con cui il futuro Sud Sudan si pronunciò infine per l’indipendenza. Ma il mancato accordo su chi avesse diritto al voto nella consultazione portò ad un indefinito rinvio, e Abyei resta da allora terreno di scontro, a tratti anche militare, tra i governi rivali.

Nonostante la portata dei nodi che ancora dividono i due Stati, nei giorni scorsi l’ambasciatore sud-sudanese a Khartoum ha parlato di una possibile visita del presidente ‘nordista’ Omar al-Bashir al suo omologo di Juba, Salva Kiir, che potrebbe concretizzarsi entro un mese. Entrambi i capi di Stato, in effetti hanno molto da guadagnare – dal punto di vista dell’immagine – dall’apparenza della pace: Kiir è a capo di un’amministrazione di cui egli stesso ha esplicitamente denunciato la corruzione, e un recente rapporto di Amnesty International ha accusato le forze armate sud-sudanesi di omicidi ed abusi ai danni dei propri concittadini della regione di Jonglei. Dal canto suo, al-Bashir ha dovuto fronteggiare per mesi manifestazioni di protesta dovute alla situazione economica, mentre oltre ai conflitti del Kordofan Meridionale e del Nilo Azzurro prosegue quello in Darfur. Proprio per i crimini di guerra che sarebbero stati commessi in quella regione, la Corte Penale Internazionale cerca di ottenere dal 2009 l’arresto del capo di Stato sudanese. E negli ultimi giorni lo stesso segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha chiesto al governo sudanese di investigare sulla morte in un’imboscata di quattro caschi blu nigeriani della locale missione di pace, e sul ferimento di altri otto. Anche la rinnovata attenzione sul Darfur, però, potrebbe rappresentare una cattiva notizia per i rapporti tra i ‘due Sudan’: già in passato il governo di al-Bashir è stato accusato di aver alzato la tensione nell’area in modo da creare un diversivo e nascondere alla comunità internazionale le sue mosse sulla frontiera sud. Da cui Addis Abeba è lontana anche metaforicamente.

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