“Sono scoppiati dei casini a «Il Mattino» per colpa di una che sta alla redazione a Castellammare; nessuno la può vedere, tutti dicono che non fa niente e non sa scrivere e lei si incazza perché certi servizi più importanti li fanno fare a me. Ha scritto anche una lettera al direttore. Ora non so come andrà a finire. Io me ne fotto e scrivo sempre, mi butto su ogni fatto. C’è un particolare: lei è nipote di un senatore Dc e io? Nu strunz!”. La voce di Giancarlo Siani, giovane giornalista di 26 anni che tutti ricordano perché ucciso in un agguato a Napoli il 23 settembre 1985, riecheggia nelle parole dell’attore Ferdinando Maddaloni.
L’occasione è la presentazione di “Giancarlo Siani. Passione e morte di un giornalista scomodo” di Bruno De Stefano, edito da Giulio Perrone. La location è la sala centrale della libreria Arion nel Palazzo delle Esposizioni a Roma. Un tema scomodo, una figura scomoda, un libro – che ha visto l’autore tra le sudate carte dell’Archivio del Tribunale di Napoli trascorrere un anno e passa – altrettanto scomodo per molti. Per tanti. Specie per i giornalisti (eccetto quelli che rappresentavano Articolo 21, va detto, a onor del vero) che il pomeriggio del 3 ottobre scorso non erano seduti ad ascoltare le trame di una vicenda che, come sottolinea più volte De Stefano, è stracolma di zone d’ombra. A distanza di trent’anni. Già. Lo ribadiscono nei loro interventi il moderatore dell’incontro Cristiano Armati, scrittore ed editor e Yari Selvetella, scrittore. E lo sottolinea con forza il suono delle parole che rimbombano nell’oscurità grazie a Maddaloni, che ridà magistralmente voce a quello che non era né un martire né un eroe, come ripete chi ha scritto il libro, ma un ragazzo semplice, con le sue paure, la sua forza, che voleva a tutti i costi fare il giornalista. Si comincia dai mandanti. È da qui che partono i nodi da sciogliere. «Siani non è stato ucciso dalla camorra – sostiene De Stefano – ma dalla mafia siciliana. E tra i colpevoli vi sono prima di tutto coloro che hanno usato Giancarlo, che non hanno fatto nulla per salvarlo, ma che lo hanno mandato allo sbando lasciandolo solo». Solo. Questo era Siani. Il vero Siani. Così come si tenta di ricostruire in questo libro, che ripercorre una tortuosa vicenda giudiziaria dove la verità processuale si rivela tutt’altro che assoluta. De Stefano non lo dice a chiare lettere. Lascia l’interpretazione dei fatti al lettore. Ma pone interrogativi «per far sì – spiega alla platea – che ciascuno si faccia una propria opinione». «I dubbi che questo caso si porta dietro – insiste l’autore di “Passione e morte di un giornalista scomodo” – sono tanti. È accertato che Siani stava lavorando su altri fronti che portavano verso un’unica direzione: l’ambiente corrotto di Torre Annunziata fatto di collusioni tra mafia, camorra e politica. Ecco perché quella di Giancarlo è una storia che non è stata ancora scritta». E il ruolo del giornalismo? Quello che scende in strada, conduce inchieste, ha paura, trova il coraggio di denunciare pur sapendo di non essere un eroe? Quel giornalismo sembra vacillare quando si tratta di sostenere il giovane collega. «Il giornalismo napoletano deve farsi perdonare ancora molte cose sul caso Siani. Molti colleghi hanno contribuito ad allargare le zone d’ombra col loro silenzio. Trasformando un ragazzo di 26 anni in un eroe da santificare pur non essendolo mai stato. In realtà – suonano dure come un macigno le parole di De Stefano – Giancarlo fu mandato al macello senza coperture». Una solitudine che si riflette – prorompente – ancora una volta nelle letture di Maddaloni, che stavolta cita il racconto di Daniela Limoncelli, collega del cronista ucciso: “Era uno che voleva fare bene il suo lavoro, punto. Giancarlo della camorra di Torre Annunziata, comunque, si fotteva di paura. Di quello là, come si chiama, di Gionta. Quella era proprio una sua paranoia. Aveva paura, è normale, perché uno comunque lo sa che questi non sono dolci di sale, insomma. Ecco perché ti dico, lui non era il tipo che voleva fare l’eroe e ti dico di più: Giancarlo, molto probabilmente è stato venduto”. Eppure quella sala della libreria Arion non ha avuto il piacere di ospitare i colleghi di Giancarlo Siani. E come mai – ci si chiede – una società civile assopita non si chiede perché – a distanza di un trentennio – il caso Siani resti un mistero? «Ho incontrato Bruno De Stefano il 22 settembre scorso – ricorda Maddaloni, che ha in cantiere un lavoro teatrale ispirato al libro di De Stefano – in occasione di un mio spettacolo, “Ristoranteatro”, dove c’era il menu anti camorra dedicato a Siani. È così che è nata l’idea di partecipare alla presentazione romana. Nell’ottica comune della necessità di sviluppare riflessioni sul perché l’indignazione popolare sia la migliore garanzia contro la solitudine ed in difesa del diritto di vivere di persone che avrebbero soltanto voluto fare il loro lavoro, come Giancarlo Siani, Ilaria Alpi, Antonio Russo e Anna Politkovskaja, di cui tra pochi giorni ricorrerà il sesto anniversario della morte».