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Quando gli “uomini ombra” fanno paura

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Nel carcere di Spoleto, nella sezione AS 1, si era formato un gruppo di uomini ombra (così ci chiamiamo fra di noi ergastolani ostativi) che  con dibattiti, articoli e inviti al mondo esterno,  lottavano pacificamente per l’abolizione della “Pena di Morte Viva” (così chiamiamo l’ergastolo ostativo, quello senza nessuna possibilità di liberazione).
Avevamo assiduamente incontri con la società esterna,  locale e nazionale.
Commovente il colloquio collettivo con la scrittrice Benedetta Tobagi, che ha avuto il padre ammazzato dalle brigate rosse.

Affettuosi gli incontri con la Comunità Papa Giovanni XXIII e con il Prof. di Filosofia Giuseppe Ferraro,  dell’Università Federico II di Napoli.
Costruttive le visite del Senatore Francesco Ferrante, dell’Onorevole Rita Bernardini, dell’ex Senatore Giovanni Russo Spena, degli operai di Pomigliano e di tanti altri.
Bellissime le visite d’intere scolaresche delle scuole superiori e degli studenti universitari con gli uomini ombra.

Molte le iniziative intraprese da parte degli uomini ombra per sensibilizzare l’opinione pubblica, la più importante è l’attuale petizione “FIRMA CONTRO L’ERGASTOLO” sul sito www.carmelomusumeci.com , che ad oggi ha superato le quindicimila firme e  che sta avendo adesioni come Stefano Rodotà, Umberto Veronesi, Luigi Ferraioli, Don Luigi Ciotti, Erri De Luca, Margherita Hack, Agnese Moro, Bianca Berlinguer, Giuliano Amato, e molti altri.

Con il nostro pacifico, costruttivo,  attivismo non pensavamo di dare fastidio a nessuno, ma un bel giorno inspiegabilmente, senza sapere il perché, come sacchi di patate ci prendono e ci sparpagliano in molti carceri d’Italia, molti addirittura in Sardegna: percorsi rieducativi interrotti, legami tagliati, colloqui coi familiari resi ancor più difficili, percorsi scolastici bruscamente interrotti.

Oggi  ho potuto finalmente scoprire la verità sulla diaspora degli uomini ombra  leggendo la  bellissima lettera, pubblicata su “Il Manifesto dell’19 ottobre 2012, del coraggioso direttore aggiunto del carcere di Spoleto,  Giacobbe Pantaleone:

(…) È non è da escludere che il trasferimento di questi detenuti sia dipeso da una sorta di fraintendimento o malinteso, forse influenzato da un eccesso di interpretazione autarchica rispetto a quello che bolliva in pentola in questo stare al gioco. Per esempio, sollevare il tema dell’ergastolo ostativo può avere generato dei sospetti? Eppure esso è stato portato tante volte all’attenzione dell’opinione pubblica con intelligenza: mai che si ricordi sia stato portato dentro un progetto rivendicativo ottuso (…).

I funzionari  di Roma hanno paura dei prigionieri che pensano, lottano e scrivono.
Lo sospettavo che eravamo partiti perché lottavamo pacificamente contro l’abolizione  dell’ergastolo, ora ne ho la certezza.

Carmelo Musumeci.
Padova,  ottobre 2012
www.carmelomusumeci.com

Dal Manifesto, 19 ottobre 2012
Lettere: trasferimento degli ergastolani da Spoleto
Un “vuoto” nel carcere
di Giacobbe Pantaleone (direttore aggiunto Casa di reclusione Spoleto)
I 18 detenuti AS1 (questa sigla si potrebbe definire simbolo paratattico, per stigmatizzare la pericolosità dei singoli detenuti) prima rinchiusi nella casa di reclusione di Spoleto sono stati trasferiti per un fatto di carenza di disponibilità di posti letto di cui, appunto, il carcere di Spoleto è in grande sofferenza. Anche se è obbligatorio ed ovvio dover pensare male e senza per questo commettere alcun peccato.
Tale partenza ha lasciato come un vuoto. Non nel senso fisico del temine in quanto, se fosse per questo, il vuoto è stato subito colmato con un numero di detenuti addirittura doppio rispetto a quelli di prima.

Vuoto, al contrario, perché è venuta meno una tentazione culturale, con l’illusione di poter rincorrere un’utopia, non certamente per imitare esempi illustri di rottura culturale come la scuola di Barbiana di Don Milani o l’impegno sociale di Danilo Dolci di “Banditi a Partinico” o, addirittura, rifarsi all’anti-psichiatria di Franco Basaglia nel manicomio di Trieste… niente di tutto questo. Più modestamente, la curiosità di capire se un gruppo di strane persone, quasi tutte con ergastoli sulle spalle, e che avevano intrapreso nel carcere di Spoleto un certo discorso di discontinuità rispetto al loro passato, erano in grado di mantenere questa promessa anche per il futuro. Come si vede, veramente nulla di rivoluzionario, ma per mantenere il passo su un progetto del genere ad ogni modo bisognava essere sorretti da una buona dose di utopia. L’ho sempre detto che l’art. 27 della Costituzione bisognerebbe intitolarlo I care.

Esperienza, con un inizio fatto di entusiasmo da neofita, per l’improvvisa scoperta di avere a portata di mano la possibilità di raccontare il passato non come storia personale da rimuovere in gran parte, perché quella che conta è già scritta negli atti giudiziari. Ma come piano-sequenza, dove ogni momento della vita è lì, si presenta scandalosamente col suo vero peso specifico.
Sarebbe interessante leggere, per capirne la portata, cosa scrive Mariano Ciro nel libro “Volete sapere chi sono io? Racconti dal carcere”(Oscar Mondadori); o Carmelo Musumeci in “Undici ore d’amore” (Gabrielli editore).

Questa partenza improvvisa, per un verso ha fatto smarrire uno spirito positivo all’interno del carcere alimentato da iniziative culturali, da dibattiti informali, da contestazioni anche, ma che plasmavano le voci di dentro su quote di pensiero fuori dallo schematismo nevrotico e ossessivo a cui ti costringe quotidianamente l’istituzione totale. Ma ha creato anche una certa amarezza perché, comunque, è stato rescisso un legame costruito con fatica e tante volte allentato o tirato al massimo di grado, a seconda le circostanze del momento. Alcuni di questi detenuti sono arrivati a Spoleto dopo un lungo peregrinare da un carcere all’altro, “come ultima spiaggia”, gli è stato dato come messaggio. Evidentemente, c’è sempre un’ultima dell’ultima spiaggia.

Per aver coltivato questa idea (narcisistica?), non può essere agitato il sospetto di un cedimento al sentimentalismo d’antan, pur sempre in agguato specie in situazioni di convivenza forzata e costretta dentro spazi di manovra alquanto rigidi. Essa, sappiamo, predispone alla lunga a vedere l’interlocutore quasi solo dal lato positivo, non fosse altro che è quello che gli si offre più a buon mercato e con immediatezza. E in ogni caso il farsi accettare innesca nell’altro un giuoco psicologico gratificante.
Il tutto s’è tradotto semplicemente in uno stare al giuoco, dentro cui è stato possibile individuare elementi di sincerità forse poca, di strumentalismo forse molto, di curiosità e di noia a seconda le giornate, ma anche di ironia e autoinganno che ha dato, poi, luogo al crogiolo che possiamo condensare come l’inizio destabilizzante.

E non è da escludere anche che il trasferimento di questi detenuti sia dipeso da una sorta di fraintendimento o malinteso, forse influenzato da un eccesso di interpretazione autarchica rispetto a quello che bolliva in pentola in questo stare al giuoco. Per esempio, sollevare il tema dell’ergastolo ostativo può aver generato dei sospetti? Eppure, esso è stato portato tante volte all’attenzione dell’opinione pubblica con intelligenza: mai che si ricordi sia stato presentato dentro un progetto rivendicativo ottuso.
Ogni discorso su quel tema mirava ad un cambiamento di prospettiva, dove si chiedeva sia la necessità di una nuova elaborazione culturale come superamento di quella che generò la fattispecie di chiusura (sentenza n. 35 del 2003 della Corte Costituzionale); e parallelamente i singoli ergastolani coinvolti nel dibattito dicevano come ciò fosse paradossale nei confronti della loro vita, e non di altre, per la metamorfosi che essi stessi sentivano intima e come valore aggiunto.

In un certo qual modo, potremmo dire, che siamo nell’ambito di un quasi contenzioso ad personam, dove si getta sul piatto della rivendicazione non un bene materiale ma uno immateriale ovvero una nuova presa di coscienza a dimostrazione della rottura col passato criminale di queste persone. Ma stranamente essa non trova un alter ego per vagliarne la consistenza ideologica, in quanto la norma astratta preposta a ciò, esclude già di per sé che una presa di coscienza in materia sia possibile.

A ben vedere, non è peregrina l’idea che un approccio così asimmetrico possa aver generato delle comprensibili paure, specie in chi non ha gli strumenti di lettura adeguati.
Ora, la speranza è che nulla si disperda di tanto impegno e lavoro. In particolare i detenuti interessati non abbandonino la strada intrapresa e siano seminatori di buone prassi, pur consapevoli che non è più possibile né ripetere né riprendere l’esperienza di Spoleto. L’incantesimo s’è spezzato e soltanto un rewind è in grado di creare l’illusione filmica di un ritorno al futuro.


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