Diffamazione. Meglio la brutta legge attuale, persino la galera affidata a giudici saggi, piuttosto che una riforma ispirata a propositi di vendetta e dal livore
Tante belve e pochi cristiani. «Questo più che un Senato è un’arena, un Colosseo nel quale si vuol vedere scorrere il sangue», si lascia scappare il capogruppo Pd Anna Finocchiaro. Il sangue dei giornalisti che, come categoria -ammettiamolo- non è tra quelle più considerate e amate dalla stessa opinione pubblica. Ma sempre uno scalino sopra nella stima di cui godono i legislatori riuniti in arena. Col dettaglio che la seconda professione più diffusa tra i parlamentari, dopo quella di avvocato, risulta essere appunto quella di giornalista. Se non è la seconda è comunque da podio. Gatta ci cova e alcuni livori, più che visione politica, sembrano ispirati a precise ragioni personali e a vendette mirate. Difesa di interessi privati la mia?
Il dubbio che si affaccia. «Ho seguito attentamente in aula l’andamento dei lavori e ho riscontrato un fondo di acidità verso i giornalisti – confessa il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, Carlo Vizzini – Quando ho visto che si cominciava a citare il caso Tortora, che di per sé segna un punto di non ritorno rispetto alla possibilità di un dibattito sereno, ho capito che si toccavano i due nervi scoperti per i parlamentari: giornalisti e magistrati. Meno male che tutto è stato rinviato a lunedì, potrebbe essere l’occasione per distendere un po’ gli animi». Distendere gli animi rispetto a cosa, quali i sentimenti forti che spingerebbero i nostri legislatori ad eventuali forzature? Il sospetto appare più che legittimo.
In principio fu Sallusti. Già con questo incipit, la creazione della nuova legge sulla diffamazione, partiva da una motivazione eticamente debole. Il problema, oltre alla mai abbastanza percepita durezza della sottrazione della libertà in carcere -ma vale anche per gli immigrati trovati a delinquere- pone un problema di conflitto di interessi. L’eccesso di frequentazione tra giornalisti e politici, il farsi braccio armato di interessi occulti, è la pena massima che pende sulla categoria dei giornalisti. Troppi quelli capaci di resistere a tutto meno che a quella tentazione. Sallusti per primo e tanti altri a seguire. Vedi l’ex collega Farina, l’autore del pezzo diffamatorio a falso per cui Sallusti è stato condannato. Ora Farina è onorevole in Parlamento.
Sparate sul pianista. Se uno nasce giornalista rompiscatole -e Sallusti lo è certamente- qualche merito comunque lo ha. Magistratura e giornalismo dovrebbero essere i poteri terzi e di controllo delle prerogative politiche di esecutivo e legislativo. Ma i magistrati che condannano Berlusconi sono degli eversori e i giornalisti -non Sallusti- che denunciano da anni il degrado morale della politica, sono nemici da tenere a bada. Peccato che voi, signori Onorevoli, non ne abbiate il diritto morale. E provo a spiegarmi. Trovo molto più corretto -onorevole- chi mi sparava colpi di kalashnikov o granate durante le guerre che mi sono trovato a raccontare, rispetto ad alcuni agguati parlamentari, cecchinaggio, di cui narrano le cronache dal Senato.
Metodo P2 poco venerabile. Uno degli elementi chiave, su cui litigano i senatori in arengo, è quello della pena pecuniaria a cui può essere sottoposto il giornalista diffamatore come sanzione alternativa al carcere. 100 mila euro, invocano i duri e puri! Mi ricorda personalmente qualcosa. Quando il Tg1, nel 1990, mise in onda l’inchiesta sui rapporti tra Cia e P2 -con qualche guaio di carriera per autore e vertici del giornale- il signor Licio Gelli, già mio venerabile intervistato, sentendosi colpito, decise non di denunciarmi per diffamazione ma di chiedermi 10 miliardi -dieci- in vecchie lirette di danni “A puro titolo simbolico, nulla potendo risarcire il danno morale a me arrecato”. Piano di Rinascita Democratica a compimento?