di Roberto Bertoni
Nonostante l’acceso dibattito di questi giorni su un eventuale Monti-bis, il vero dibattito che dovrebbe coinvolgere tutti i partiti, e in particolare quelli del centrosinistra, riguarda il Nord e i suoi elettori, in gran parte delusi dal PDL e dalla Lega ma ancora privi di una nuova rappresentanza politica. Come rapportarsi con un mondo così dinamico, in costante evoluzione e più che mai travolto dalla crisi economica che ha investito l’Occidente negli ultimi anni? Come rispondere in maniera chiara e concreta alla miriade di richieste che provengono da un elettorato arrabbiato ed in preda allo sconforto, tra fabbriche che chiudono, aziende che falliscono, colossi industriali che delocalizzano e migliaia di posti di lavoro che vanno in fumo? Come rilanciare quel patto tra categorie sociali che era stata una delle migliori intuizioni di Veltroni nel 2008, purtroppo naufragata a causa della sconfitta elettorale?
Sono queste le domande che dovrebbero animare convegni e seminari, trasmissioni televisive, confronti sul territorio e riunioni nei circoli di qualunque partito, perché nessuno può illudersi, stavolta meno che mai, di poter vincere le elezioni e condurre il Paese fuori dal pantano senza il contributo determinante delle sue regioni più virtuose e produttive.
Le Politiche della prossima primavera, infatti, si preannunciano come elezioni alquanto atipiche, con almeno tre poli a contendersi il governo del Paese e numerose formazioni anti-sistema, primo fra tutti il Movimento 5 Stelle, pronte ad approfittare di attuali e nuovi eventuali scandali e del diffuso malcontento che serpeggia tra i cittadini.
Anche i temi che scandiranno la competizione sembrano alquanto scontati: la crisi economica, certo, ma anche quella morale e sociale, i rapporti con l’Unione Europea, la permanenza nell’Euro (argomento sul quale Grillo, e purtroppo non solo lui, vorrebbe indire un referendum popolare), il mercato del lavoro, la disoccupazione giovanile, la riforma Fornero e altri provvedimenti controversi varati dal governo Monti, sui quali si incentrerà l’estenuante discussione, tra i partiti e all’interno degli stessi, fra montiani, ultra-montiani, anti-montiani, montiani tiepidi e le infinite categorie che sono sorte in questi mesi intorno al montismo.
E Berlusconi? Che ruolo avrà il Cavaliere nella prossima tornata elettorale? A nostro giudizio, se non ha deciso di interpretare il ruolo di Sansone, si farà da parte, limitandosi a candidarsi in Parlamento e affidando il partito ad Alfano o a chi avrà il coraggio di assumere le redini di una formazione ormai prossima all’implosione, con gli ex AN in rivolta da mesi e gli ex Forza Italia che, in questi giorni, hanno preso a marcare le differenze dai colleghi di partito con toni che, di solito, non si riservano neppure al più pericoloso degli avversari.
E la Lega? Siamo proprio sicuri che Maroni non riesca a riorganizzarla? La mano di vernice che ha passato sulla facciata di un palazzo da tempo pieno di crepe, dubitiamo che possa salvarlo dalla débâcle e di sicuro non gli consentirà di rinverdire, almeno a breve, i fasti di un tempo. Fatto sta che questa nuova Lega, la cosiddetta “Lega 2.0”, senz’altro più borghese e colta rispetto a quella popolare del Bossi dei tempi d’oro, è riuscita comunque nell’impresa di restare a galla, senza lasciarsi travolgere dal grillismo in ascesa.
Detto questo, però, crediamo abbia ragione Furio Colombo quando, al termine di un saggio intitolato “Contro la Lega”, scrive: “Finita la lunga mascherata berlusconiana fondata sulle notizie false o proibite, adesso dicono no, a occhi aperti, gli elettori italiani del Nord”.
Senz’altro è così: una stagione si è inequivocabilmente conclusa. Il vero dramma dei nostri tempi è che, purtroppo, non si profilano all’orizzonte energie fresche e innovative in grado di aprirne un’altra, finalmente all’insegna della pulizia e della trasparenza, capace di regolare i conti con un passato triste e del quale non vediamo l’ora di liberarci, pur sapendo che la sua ombra graverà su di noi per almeno un decennio.
In verità, qualcuno in grado di condurci fuori dal baratro ci sarebbe pure: sarebbe il Partito Democratico, che le idee buone le avrebbe, al pari degli esponenti capaci di metterle in pratica, ma deve stare molto attento a non lasciarsi dilaniare da uno scontro interno che si profila lacerante e di difficile ricomposizione una volta conclusa la fase delle Primarie.
Anziché farsi del male con estenuanti dispute sul rinnovamento (per quanto esso sia indispensabile nelle file del partito di Bersani), consigliamo ai Democratici di tendere la mano a quei milioni di cittadini del Nord che un tempo votavano PCI, per anni si sono fidati della Lega e ora sono indecisi, combattuti tra le sirene grilline e la forte quanto atroce tentazione di astenersi.
Chi sembra aver colto meglio degli altri questo epocale cambio di prospettiva, storica e politica, è proprio Matteo Renzi, che da mesi lancia appelli ai delusi del centrodestra e al Nord raccoglie i consensi di quegli elettori che nessun altro competitore del centrosinistra è, finora, riuscito ad attrarre a sé: o perché percepito come troppo chiuso e arroccato in difesa di antiche rendite di posizione e segmenti di elettorato ormai consolidati o perché poco conosciuto e considerato dai più un outsider privo di reali possibilità di affermarsi.
Poiché, tuttavia, non consideriamo Renzi un’alternativa all’altezza, in quanto eccessivamente concentrato sulla “rottamazione” dei dirigenti del PD e non sufficientemente progressista nelle proposte e nel programma complessivo, consigliamo a Pierlugi Bersani di far sue alcune riflessioni che Dario Franceschini (all’epoca suo rivale nella corsa alla segreteria del partito) pronunciò a Vicenza il 17 ottobre 2009, davanti ad una platea di imprenditori del Nord-Est: “Abbiamo sbagliato a guardare con sospetto e diffidenza il mondo dell’impresa, quelle migliaia e migliaia di piccole e medie imprese, di artigiani, di chi rischia di tasca sua. Abbiamo sbagliato a trattarvi come un popolo di potenziali evasori, interessati solo al profitto”. Dopodiché, oltre a chiedere scusa per l’atteggiamento sospettoso e diffidente che troppe volte ha caratterizzato il centrosinistra nei confronti del mondo imprenditoriale e produttivo, propose “un patto nuovo”, spiegando che “tra impresa, lavoro, politica ci vuole di più di una tregua. Ci vuole collaborazione, ma su obiettivi comuni. Ed è la politica che deve favorire questa collaborazione.
Questo è il tempo del realismo e della concretezza. Proprio quella concretezza che è mancata finora nel fronteggiare la crisi”.
Con un discorso del genere né Renzi e nemmeno il varesino Monti, avrebbero alcuna possibilità di prevalere su Bersani; e, probabilmente, anche i mercati e le cancellerie internazionali si convincerebbero della validità di una candidatura in grado di sanare le divisioni e ricucire gli strappi che tanti guai hanno arrecato al nostro Paese. In caso contrario, il cammino verso Palazzo Chigi diverrebbe per Bersani alquanto impervio, con buona pace di tutti coloro che considerano Monti un’importante risorsa per l’Italia ma, al tempo stesso, credono che nel 2013 si debba tornare al normale confronto politico tra progressisti, liberali e conservatori, proprio delle grandi democrazie occidentali.
Roberto Bertoni