Per chi, come chi scrive, ha cominciato a riflettere sulla storia, a pensare la storia e a pensare di fare della storia una professione avendo tra i propri riferimenti intellettuali principali quello di Eric Hobsbawm, lo storico britannico scomparso oggi a 95 anni, la morte di questi a Londra lascia un senso di vuoto anche umano, oltre che scientifico e professionale.
di Gennaro Carotenuto
Occidentale ma non occidentalista, aveva studiato l’Occidente nel tempo nel quale questo è stato al centro del mondo, motore del progresso, sociale, politico, tecnologico, economico, lui irriducibilmente marxista, ma ne aveva sempre percepito (anche nel suo lavoro sul Novecento come l’età degli estremi, tradotto solo in italiano come “secolo breve[1]”, il più noto ma non il più importante) la centralità come un fenomeno storico, non un destino. La storia per lui aveva continuato ad essere quella che aveva insegnato dalla fine degli anni ’40: una lotta tra il capitalismo e gli esclusi da questo.
Una storiografia quella di Hobsbawm, che condivise con EP Thompson, Hill, Raymond Williams, e altri storici marxisti nella cosiddetta “people’s history”, traducibile come “storia dal basso” nel contesto della “storia sociale” come alternativa alla storiografia tradizionale dei cosiddetti “grandi uomini”.
Contrariamente a quanto stanno battendo i giornali, ascrivendolo alla categoria di storico del Novecento, citando sempre e solo la sua opera più nota, Eric Hobsbawm è stato soprattutto un grande studioso dell’800. Aveva spiegato quello che per lui era il “lungo Ottocento”, dalla rivoluzione francese alla prima guerra mondiale, in una trilogia[2] ponderosa, tuttora illuminante nello spiegare la genesi della società di massa, del capitalismo moderno, dell’imperialismo, del nazionalismo e soprattutto il ruolo predominante della borghesia. Resta quello il suo contributo fondamentale, anche se l’individuazione del concetto di “invenzione della tradizione[3]” è tuttora chiave nel rinnovamento della storiografia contemporanea e nel demistificare i processi di costruzione della legittimità delle classi dirigenti e della storia ufficiale. In opinione di chi scrive è quello il più sovversivo dei contributi di Hobsbawm. Più sovversivo di quando ha scritto di banditi e rivoluzionari[4]. In ogni caso tutti libri importanti per gli specialisti e di ottima, piacevole leggibilità per il pubblico più vasto.
Di origine ebraica, come il suo omologo per prestigio e autorevolezza ma non per interessi di studio George Mosse, lasciò la Germania all’avvento del nazismo. In Gran Bretagna ebbe allora una lunga carriera accademica, tra Cambridge e il Birkbeck College di Londra, bloccata però per ben 23 anni al gradino iniziale di “lecturer”, iniziata lavorando sulle origini della storia del movimento operaio. Nato in Egitto poche settimane prima della Rivoluzione d’ottobre da padre inglese d’origine polacca e madre austriaca, dai quali rimase orfano ancora bambino, si iscrisse per la prima volta ad un partito comunista a 14 anni, prima dell’avvento di Hitler e militò tutta la vita nel piccolo partito comunista britannico nel quale rimase fino all’89. Non eluse le polemiche sul ruolo e sui crimini dell’URSS ma non soddisfece mai i suoi detrattori che avrebbero preteso abiure complete. Negli anni ’70 si schierò sulla linea degli eurocomunisti e resta celebre la sua intervista del 1977 a Giorgio Napolitano.
Dopo l’89, già nella notte oscura del thatcherismo, provò disperatamente –già padre nobile della sinistra intellettuale britannica- a tenere ancorato il partito laburista alla sua storia socialdemocratica, prima appoggiando Neil Kinnock, del quale era uno dei principali consiglieri, per essere infine sopraffatto dalla liquidazione totale blairiana. Memorabile fu la sua critica di Ronald Reagan e del reaganismo. La sua vita sarebbe però stata ancora lunga e ha continuato fino all’ultimo ad essere –insolito per un marxista- uno degli intellettuali britannici più ascoltati e riconosciuti. Non ho mai conosciuto personalmente Hobsbawm ma, tra i grandi storici del XX secolo, è sicuramente con lui che mi sarebbe piaciuto sedere al caminetto a discutere di rivoluzioni e capitalismo, borghesia e socialismo, colonialismo e imperi.
[1] The Age of Extremes: the short twentieth century, 1914–1991, Londra, Michel Joseph, 1994 (ed. it. Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995).
[2] The Age of Revolution: Europe 1789–1848, Londra, Abacus, 1962; The Age of Capital: 1848-1875, Londra, W&N, 1975; The Age of Empire: 1875–1914, Londra, W&N, 1987. In italiano: Le rivoluzioni borghesi. 1789-1848, Milano, Il Saggiatore, 1963; Il trionfo della borghesia. 1848-1875, Roma-Bari, Laterza, 1976; L’Età degli imperi. 1875-1914, Roma-Bari, Laterza, 1987.
[3] E. Hobsbawm, TO Rangers (Eds), The invention of tradition, New York, Cambridge University Press, 1983.
[4] Bandits, Londra, W&N, 1973; Revolutionaries: Contemporary Essays, Londra, W&N, 1973.
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