Il boss e il senatore

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Processo D’Alì: prima udienza e nuovo verbale di un collaboratore di giustizia
di Rino Giacalone
Aperta e rinviata al 30 novembre prossimo l’udienza contro l’ex sottosegretario all’Interno Antonio D’Alì, parlamentare di Forza Italia della prima ora, ininterrottamente eletto al Senato dal 1994, e che ha seguito Berlusconi nel Pdl e ora presiede la commissione Ambiente di Palazzo Madama. Il primo atto di questo processo si è tenuto oggi  a Palermo dinanzi al gup Giovanni Francolini con un colpo di scena, il deposito da parte del pm Andrea Tarondo di un nuovo verbale che si va ad aggiungere alla mole delle carte già prodotte dall’accusa e che proverebbero gli “intimi” rapporti tra D’Alì e i potenti mafiosi Messina Denaro, Francesco e Matteo, già suoi campieri. Il collaboratore di giustizia è Giovanni Ingrasciotta, un personaggio che nel 1996 sfuggì ad un agguato ordinato dai Messina Denaro: fu attirato in un tranello dal consuocero di don Ciccio, Vito Panicola, consigliere provinciale della Dc, ma questi sparando invece di colpire lui ferì a morte il figlio, Giuseppe Panicola. Ingrasciotta riuscì a fuggire e nel gennaio del 1997 cominciò a collaborare. La sua collaborazione però fu presa in considerazione solo per l’agguato, la sua figura andò scemando, fino a quando qualche mese addietro ha riconquistato notorietà per una presunta estorsione che lui avrebbe tentato nel nord Italia dove nel frattempo si è trasferito.

Più passa il tempo e più sembra che l’episodio sia stato posto in essere proprio per dare discredito alla sua collaborazione, mentre Ingrasciotta cominciava a deporre in importanti procedimenti a proposito di sequestri e confische di beni ai mafiosi. L’ultima sua deposizione un mese addietro davanti al pm Andrea Tarondo che rappresenta l’accusa nel processo contro D’Alì. Il verbale oggi ha fatto ingresso nel dibattimento ed è esplosivo. C’è il racconto del sostegno elettorale garantito dai Messina Denaro a D’Alì nel 1994, ma c’è anche il racconto di una truffa che Matteo Messina Denaro avrebbe rischiato di subire dai titolari di una finanziaria trapanese, la Fimepo, fallita a fine anni 80 e della quale si interessò anche il procuratore Borsellino che fece arrestare i titolari, Salvatore e Lucio D’Ambra, padre e figlio, dopo che questi avevano fatto sparire i risparmi di tanta gente e quasi reso povere molte famiglie di Pantelleria dove era avvenuto il grosso della raccolta di denaro. Ingrasciotta ha detto che Messina Denaro aveva versato propri soldi in quelle casse e quando cominciò a percepire, prima ancora della magistratura, che le cose si stavano mettendo male, si mosse per recuperare i soldi e far sentire quanto violenta poteva essere la sua reazione. Non accadde nulla di grave, perché a garantire per i D’Ambra sarebbe stato proprio il senatore D’Alì. Ingrasciotta ha raccontato l’esito di una riunione che si sarebbe svolta nella sede della Fimepo dove lui accompagnò Matteo Messina Denaro, presente per l’appunto Antonio D’Alì che ancora non era stato eletto senatore. Il verbale è composto da una decina di pagine, racconto molto dettagliato, il particolare che Ingrasciotta dimostra di ricordare benissimo è quello di quando l’incontro finì e Matteo Messina Denaro diede una pacca sulla spalla di D’Ambra senior per dire che l’aveva scampata bella.

Il pm Tarondo ha chiesto al giudice di potere sentire Ingrasciotta in aula, le difese si sono riservate e l’udienza è slittata a fine novembre. Ad avvio del dibattimento il giudice ha affrontato la questione della costituzione come parte civile dell’associazione Libera, rappresentata in aula dall’avv. Enza Rando. Nell’udienza nella quale si è deciso il rito abbreviato, le difese del senatore, avvocati Bosco e Pellegrino, avevano eccepito che non si evinceva la titolarità di don Luigi Ciotti quale presidente dell’associazione Libera, avendo firmato don Ciotti l’istanza di costituzione. Circostanza arcinota e che però hanno chiesto venisse provata da documenti. L’avv. Rando ha prodotto gli atti relativi, ma ancora oggi è stata sollevata altra eccezione, i legali hanno lamentato l’assenza sui documenti presentati della vidimazione notarile, insomma don Ciotti può qualificarsi presente di Libera solo se affianco alla nomina c’è la firma di un notaio. “Come Libera – ha detto l’avv. Enza Rando – ci siamo costituiti in diversi processi, ma il bollo notarile non ce lo ha mai chiesto nessuno”. Il gup deciderà il prossimo 30 novembre anche su questo. Contro il senatore D’Alì’ c’è una articolata accusa che parla di mafia, appalti, politica:

“Non è un processo qualsiasi – dice l’avv. Enza Rando – è un processo che punta a difendere la dignità dello Stato, la credibilità dello Stato, per questo c’è Libera perché è noto il suo impegno a difesa dei cittadini, che sono il vero Stato, “noi” cittadini”. L’attenzione di Libera è puntata sulla gestione dei beni confiscati. Tra le accuse al senatore D’Alì ci sarebbe quella di non avere gradito l’azione del prefetto di Trapani Fulvio Sodano a favore di uno dei beni confiscati alla mafia più importante della provincia di Trapani, la Calcestruzzi Ericina. E Sodano nel luglio 2003 dopo uno scontro con D’Alì che era sottosegretario agli Interni, fu trasferito improvvisamente ad Agrigento. “Libera – ricorda l’avv. Rando – ha conosciuto l’impegno e il sacrificio del prefetto Fulvio Sodano che è stato a Trapani vero primo rappresentante dello Stato che vuole combattere la mafia”.

“Il lavoro di Libera – dice don Luigi Ciotti – è innanzitutto quello di cogliere e portare in mezzo alla gente, anche nelle aule dei Tribunali, l’addolorato grido di dolore dei familiari delle vittime delle mafie che pretendono il rispetto del “bisogno” di giustizia e verità che appartiene  anche a tutti “Noi”. In un processo dove emerge il presunto tentativo di un indagato, il senatore Antonio D’Alì, di rendere vana la legge sui beni confiscati alle mafie, Libera, che ha raccolto 1 milione di firme per la tutela e l’applicazione di una legge importante e fondamentale, nell’unico interesse della società civile responsabile, non potevamo non costituirsi parte civile per potere meglio conoscere la storia della mafia nella terra del latitante Matteo Messina Denaro, le cui mani, sporche del sangue di tanti morti ammazzati, oggi muovono i fili di una parte dell’economia, di imprese e sono capaci di intaccare il consenso elettorale per le connessioni coltivate da quella che in provincia di Trapani, e non solo, si chiama mafia borghese”.


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