di Mario Balduzzi
Questo è un momento centrale per la vita economica, sociale, culturale, per l’avvenire nostro e dei nostri figli, per le scelte democratiche della nostra gente, in una congiuntura come l’attuale in cui riforme affrettate che non tengono conto delle realtà e delle ricchezze del territorio nel tentativo di affrontare problemi sovranazionali, di affermate globalità sconfinate, ogni cittadino legato alla propria terra, specie se con responsabilità pubbliche, ha il dovere, oltre che il diritto, di intervenire.
Da oltre sessant’anni vivo con varia responsabilità ma con profondo attaccamento a questa mia terra, il Cicolano. Più che conoscerne librescamente la storia, i costumi, le vicende sociali, i rivolgimenti economici, in vario grado posso dire di averli vissuti. Resto esterrefatto se qualcuno a Roma, senza nulla conoscere di qui, mi viene a dire: non fai più parte di Rieti, ti aggrego a Viterbo. Con quale motivazione? Con quale aggancio ad affinità socio-culturali? Con quale collegamento alle lotte della vita democratica per processi di affrancamento? Per quale altra ragione di qualsivoglia intensità? Il Cicolano con Viterbo non ha nulla a che fare. Si tratta di realtà diverse, spesso opposte . Noi non siamo neppure la Sabina. Siamo gli Equi di Tito Livio e di Virgilio. Al massimo siamo affini ai Marsi. E non mi si venga a dire che le vicende storiche non hanno senso. La territorialità è un valore persino costituzionale. Va rispettato, va capito, va assecondato. E’ tanto anche per il bene della Nazione intera o se si vuole per la stessa armonica convivenza della scelta europeista.
Se per risparmiare qualche fondo (ma davvero si risparmierebbe?) si trucidano valori ancestrali, si massacra la democrazia. Questo dovrebbe essere chiaro e pacifico.
E sia chiaro, il fatto che il Cicolano venne divelto dall’atavica sua appartenenza all’Abruzzo e più precisamente all’Aquila è stato un errore che solo l’avvedutezza e la lungimiranza della classe politica reatina ha saputo correggere ed anzi servirsene per un bel rilancio economico e culturale, in particolare con le benemerite Comunità Montane – poco saggiamente disciolte per lesine dei fondi pubblici, quanto proficue ce lo dovranno dimostrare.
Se si vuole riformare, credendo in miracoli economici con il solo fare amputazioni di gloriose istituzioni pubbliche, bene, potremmo anche essere d’accordo, noi del Cicolano: si ripari al vecchio errore e si faccia ritornare la nostra terra nel suo alveo naturale; si ritorni sotto l’egida dell’affine Aquila. Proprio oggi andavo all’Archivio di Stato dell’Aquila e mi sono commosso a ritrovare i catasti onciali della mia zona, della mia famiglia, delle famiglie del mio circondario, catasti onciali persino istoriati, persino agghindati con disegni garbatamente allusivi. Se mi costringono ad andare a Viterbo, cosa più trovo negli archivi storici che mi riguardano, che riguardano i cicolani, questi meravigliosi Equi di cui tanto discettano gli storici locali, eruditi in lingua latina e che tutto sanno delle Mura Pelasgiche?
Senza radici storiche non c’è sana gestione pubblica: manca la cultura. Senza cultura seppure lo sviluppo economico ha vere chance positive; senza cultura un popolo muore.
Se poi mi debbo recare al Capoluogo per il disbrigo di una pratica, per raffigurare un’esigenza, per acquisire un diritto e questo Capoluogo si chiama Viterbo – con tutto il rispetto che questa splendida città merita – i miei disagi di trasferimento sono tanti, superabili solo con l’uso del mezzo proprio (e con il costo sempre più stratosferico della benzina, l’onere è davvero pesante)… qualcuno dirà: banalità! Rispondo: lo Stato per risparmiare qualche euro (e non si accorge che così fa flettere il suo PIL) chiude una provincia; il cittadino ha il sacrosanto diritto di non vedersi ulteriormente alleggerire il suo portafoglio. Se i miei compaesani del Cicolano devono raggiungere l’Aquila hanno le stesse facilità di quando vanno a Rieti.
Ma si vuole ad ogni costo fare le riforme del risparmio: si consultino i Comuni con votazioni democratiche: non si decida al vertice, magari sotto il condizionamento di un politico preminente nella particolare congiuntura, interessato più al suo elettorato che alla ragionevolezza di una sana gestione del territorio.