di Vittorio Teresi*
Sono magistrato dal 1979; lavoro alla Procura della Repubblica di Palermo dal 1987, con una parentesi di alcuni anni alla Procura Generale della stessa città, quindi ho vissuto in prima persona tutti i drammi di quegli Uffici giudiziari. Ero di turno il giorno della sentenza del maxi processo contro Cosa Nostra, e quindi mi trovavo all’aula bunker per assistere alla lettura del dispositivo della sentenza (per eseguire le eventuali scarcerazioni che la Corte avrebbe potuto disporre). Ho respirato l’aria del successo, l’ebrezza della “vittoria”, quando la Corte condannò tutti i componenti della commissione mafiosa alla pena dell’ergastolo e moltissimi altri associati a centinaia di anni di carcere.
C’era pure Giovanni Falcone; il suo lavoro e quello dell’intero pool antimafia aveva avuto il riconoscimento che pochi speravano di ottenere. In quei giorni si parlò, sottovoce, della sconfitta definitiva della mafia, della liberazione della Sicilia dal condizionamento criminale che quella organizzazione aveva imposto per due secoli. Era il coronamento del sogno di quei valorosi magistrati che con professionalità, ed inimitabili capacità ed intuito avevano costruito giorno per giorno, affrontando non solo rischi personali elevatissimi, ma anche attacchi di ogni genere e isolamento, delegittimazione, insulti.
Poi tutto tornò alla “normalità”. Quando Giovanni Falcone si vide rifiutare la nomina al posto di Consigliere Istruttore, per succedere a Nino Caponnetto si capì che lo Stato non era ancora pronto per dare l’ultimo colpo finale e decisivo contro la mafia. Si doveva continuare a sopravvivere ed a fare sopravvivere la holding “mafia” nelle sue componenti politiche, imprenditoriali ed economiche, che ancora non erano state intaccate, ma solo leggermente lambite dall’intervento giudiziario. Si conosce l’esito della esperienza della conduzione del consigliere che venne nominato al posto di Falcone (grazie ai giochi ambigui di quel “giuda” evocato anni dopo da Paolo Borsellino). Le indagini furono frammentate e dissolte in mille rivoli, e nessuno dei processi celebrati nelle altre sedi giudiziarie fu mai in grado di ricostruire e affermare la granitica unità e compattezza di Cosa Nostra, né di venire a capo delle diffuse ed endemiche collusioni con i centri di potere politico istituzionale che facevano (e fanno) di quella organizzazione la più potente holding del crimine del mondo occidentale. L’esperienza di Falcone prima e di Paolo Borsellino dopo, presso la Procura della Repubblica di Palermo quali Procuratori Aggiunti, sotto la direzione di un Procuratore Capo palesemente schierato con coloro che non condividevano i metodi, gli ideali e soprattutto la determinazione dei due, è ormai nota a tutti. Forse, però, pochi sanno che il giorno dei funerali di Salvo Lima il Procuratore fu fortemente tentato di essere presente, e solo i consigli saggi di un fedele Sostituto lo dissuasero da quella sciagurata partecipazione. Sotto la sua gestione che si caratterizzò per le scelte di isolamento e mortificazione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, vennero consumate le stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Subito dopo, grazie anche alla forte reazione di un manipolo di magistrati di quell’ufficio (tra cui io stesso) che denunciarono la sua inadeguatezza, il Procuratore venne trasferito e non se ne sentì più parlare.
Oggi possiamo sintetizzare quel drammatico arco temporale in poche righe, ma sulla mia pelle e su quella di tutti quei magistrati che vissero quelle esperienze, sono rimaste le piaghe. Tra la morte di Lima e la strage di Via D’Amelio si sono verificate cose assolutamente impensabili. In quei mesi si è, in qualche modo, forgiata l’impronta di uno Stato succube ed impotente contro la mafia, dello Stato-mafia. Si è definitivamente affermata la logica della ineluttabile necessità di convivere e co- gestire il potere con la mafia. Oggi ripensando alla frase di quel Ministro che diceva che la gente doveva abituarsi all’idea della necessità di questa convivenza, mi convinco che, al di là della battuta infelice che fu da molti stigmatizzata, quel Ministro la dovesse sapere proprio lunga!
Potremmo fare un salto di venti anni e venire ai nostri giorni. Ma sarebbe un insulto allo splendido lavoro che, sul piano giudiziario della lotta alla mafia, venne svolto dalla Procura di Palermo negli anni successivi alle stragi. Quel decennio è stato caratterizzato da una straordinaria serie di successi investigativi e giudiziari contro Cosa Nostra. In un recente articolo Gian Carlo Caselli (Procuratore della Repubblica di quel periodo) ha efficacemente ricordato quei successi, e la quantità di latitanti arrestati, di mafiosi condannati, di omicidi svelati, di collaboratori di giustizia che facevano la fila per parlare con i magistrati di quella Procura; e poi ancora dei patrimoni confiscati per migliaia di miliardi, gli arsenali sottratti alla mafia, il numero di ergastoli e di anni di carcere comminati all’esito dei numerosissimi processi imbastiti. Eppure ancora oggi dobbiamo sentire negare quei successi, in nome di una incomprensibile presa di posizione che sembra una guerra di posizione, per alimentare una polemica forse un po’ miope che non serve ad aiutare la ricerca della verità ed a capire il perché di quei drammatici avvenimenti. Quelli sono stati anche gli anni dei processi contro esponenti politici di primo piano, nel panorama politico nazionale e regionale, di esponenti di vertice delle forze dell’ordine. Molti ci hanno rimproverato per avere osato portare alla sbarra quelle persone, molti continuano oggi a rimproverarcelo. Ma sono convinto che all’esito di quella stagione il bilancio sia assolutamente positivo, se è vero come è vero, che solo la prescrizione ha salvato il senatore Andreotti dalla condanna per le sue attività di collateralismo mafioso almeno fino al 1980, se un altro senatore (Inzerillo), è stato definitivamente condannato per concorso in associazione mafiosa, se Contrada è stato condannato in via definitiva per lo stesso reato, se Dell’Utri (condannato in primo e secondo grado) è in attesa del nuovo processo di appello, sempre per fatti di collusione mafiosa. Si tratta di esiti processuali che vanno molto al di là del loro significato giudiziario, perché hanno segnato un’intera epoca, dimostrando alla gente, ai cittadini per bene che le collusioni sempre denunciate da chi si occupa di criminalità organizzata, non erano invenzioni di PM visionari che intendevano sovvertire l’ordinamento democratico per via giudiziaria; ma si trattava di analisi serie e concrete fondate su fatti precisi e sulla approfondita esperienza e conoscenza del fenomeno mafioso, in tutte le sue articolazioni. Grazie a quelle sentenze, ed anche alle numerose sentenze di assoluzione intervenute nei confronti di altri esponenti politici, oggi possiamo affermare che la mafia vive della gestione del potere sul territorio in cui opera, e che la gestione di questo potere non è sempre parallela a quella dello Stato ma troppo spesso è stata ed è convergente.
Ma ci si potrebbe chiedere cosa lega quei fatti di vent’anni fa con i fatti di oggi?
In occasione dell’incontro organizzato il 22 agosto scorso dal “Fatto Quotidiano” con i giornalisti della stampa straniera, nella sede del circolo della stampa estera di Roma, un giornalista danese ha chiesto proprio se quelle vecchie storie non fossero da considerare “archeologia”, e ha posto il problema, estremamente serio, della loro attualizzazione. Innanzi tutto bisogna considerare che una democrazia compiuta non può sopravvivere se non scaccia i propri fantasmi; la questione che si incentra sulla ricerca delle responsabilità di un patto scellerato tra pezzi delle istituzioni dello Stato ed una delle più potenti e pericolose organizzazioni criminali esistenti nel mondo occidentale, non può mai essere considerata archeologia. Si tratta, infatti di verificare fino in fondo la reale capacità dello Stato di contrastare, disarticolare e definitivamente eliminare la mafia. Questa capacità, per il passato, il presente ed il futuro, non può mai e non deve passare attraverso le “trattative, gli accordi sottobanco, i compromessi. Perché questi metodi finiscono sempre per prendere in considerazione le “richieste” della controparte, che in uno spirito di autoconservazione, tenderà ad ottenere quanto necessario per perpetuare la propria sopravvivenza, e non potrà mai trattare la propria definitiva sconfitta. Quindi essa sarà considerata come un interlocutore capace di venire a patti con uno Stato al cui interno pretenderà di esercitare sempre e comunque una propria fetta di dominio. Quindi le “trattative” sono, in ultima analisi, una rinuncia alla sovranità dello Stato; essa porterà alla definitiva affermazione dello Stato-mafia, che non essendo in grado di sconfiggere (o non volendo sconfiggere) la componente criminale decide di conviverci, con un patto di non belligeranza che, alla lunga non potrà e non sarà mai rispettato dalla mafia in quanto essa si nutre e si perpetua attraverso l’accumulo di ricchezze e del controllo del territorio. La sua natura è per forza di cose belligerante, e non rinuncerà mai alla egemonia di fette di territorio nelle quali pretenderà sempre di esercitare il controllo assoluto. Le “trattative” sono quindi una cessione di pezzi di territorio e un abbandono dei cittadini ivi residenti alle regole della mafia. Detto questo possiamo anche dire che non è ancora tempo per consegnare le vicende delle stragi del 1992-93, alla storia ed agli storici, ma esse vanno ancora trattate dalla cronaca, fino a quando non saranno del tutto svelati i misteri che vi stanno dietro. Quei fatti vanno ancora scritti nelle sentenze dei giudici e non nei libri di storia
* procuratore aggiunto di Palermo e segretario dell’Associazione nazionale magistrati di Palermo.