L’ irruzione della tecnologia nella nostra vita quotidiana, il cambio di abitudini, comportamenti sociali, di usi, costumi, aspettative, percezione della realtà, entra prepotente nel mondo dell’ arte. Cambiano i massmedia, il loro uso, cambia il mondo dell’ arte. All’ultima Mostra del Cinema di Venezia la prima parte di Spring Breakers, il montaggio sembrava privo di senso., quasi ridicolo. Ma a un osservazione più acuta, avendone l’intelligenza, si poteva capire che quel montaggio parlava il linguaggio dei giovani che girano immagini con il telefonino, era in sintonia con il loro modo di far seguire sequenza a sequenza, di sovrapporre immagine a immagine.
Per restare a Venezia, basta entrare alla Biennale Architettura, al Padiglione russo. All’ingresso viene distribuito un tablet. Alle pareti solo una somma di rettangoli, ciascuno con l’ immagine ingrandita di un circuito integrato, centinaia di circuiti integrati. Puntando il tablet su uno dei molti punti, si può vedere un paesaggio, l’ attualità urbanistica presente, il passato, il progetto che ne è stato fatto, i particolari, il cambiamento che il nuovo progetto introduce nel paesaggio. Non più il solito modellino, gigantografie, riprese televisive. Uno strumento molto più plastico, una tavoletta elettronica, che è mobile, dà molte più possibilità, molte più risposte, offre interattività. Uno strumento che i giovani capiscono subito e sanno usare in tutte le sue potenzialità.
A Kassel, in una delle sezioni, la Stazione ferroviaria, con i suoi treni, gli spazi, i luoghi dismessi, gli uomini che ci passano, ai visitatori veniva consegnato un Ipod, immagini e cuffie, un lungo memorial guida prodotto da un artista che mostrava quello che stavi vedendo visto dai suoi occhi, dalla sua voce, dalla capacità di evocazione del passato, dei fatti accaduti, dei particolari ancora vivi, delle parti che rischiavano di sfuggirti.
Non il solito documentario, qualcosa di diverso che rendeva ancora più attuale un’ affermazione di Saramago: “finisce il viaggiatore, non il viaggio”. Mai affermazione fu più vera per la storia dell’ arte. In questo caso un viaggio in un luogo che rischia di non essere più percepito dall’ uso quotidiano, dalla routine, dalla fretta di andare oltre, che all’ improvviso riacquista la parola, permette, su quel luogo, di incontrarsi, di scambiare emozioni con una persona (l’ artista) che non si incontrerà mai, ma che lascia il suo segno nella nostra vita e la arricchisce di emozioni e intelligenze di cui gli siamo grati.
A Venezia, a Palazzo Grassi. Una mostra di straordinaria intelligenza, “La voce delle immagini “ ci fa capire quanto sia cambiata in questi anni la video arte. Non solo per la forza espressiva di alcuni video. Basterebbero i pochi secondi di Anri Sala per cogliere la drammaticità dell’ uomo lasciato solo con la sua povertà senza speranza. Seduto in qualche sconosciuto deposito, stà crollando dal sonno, ma ogni volta che, incapace di stare sveglio, la testa scivola nel sonno, si sveglia perché non ha un appoggio laterale. Il suo corpo cade nel sonno, ma nello stesso momento in cui, disfatto, crolla nel sonno, la mancanza di un appoggio, il fatto di crollare su se stesso, lo sveglia.
Peraltro basterebbe vedere la successione dei video di Bill Viola, ciascuno ha il volto di un uomo con alla bocca una benda che gli impedisce di parlare. Il dramma del nostro tempo: non puoi parlare, o se parli non conta, perché nessuno di ascolta. Solo l’ interesse, il potere conta, non l’ uomo, la sua ragione. O il terribile video di Javier Téllez dove due video si contrappongono: il processo a Giovanna d’ Arco di Carl Th. Dreyer , il processo che la psichiatria faceva (e forse fa ancora) agli schizofrenici). Quelle facce terribili, feroci e inumane dei giudici che possiamo vedere in ciò che resta del film di Dreyer, l’ apparente descrizione scientifica del malato mentale, trattato con non minore ferocia e mancanza di empatia umana, con un asettica, feroce, presunta oggettività tecnica.
Si potrebbe parlare a lungo di questa mostra, e lo meriterebbe, ma è la dimostrazione evidente, è questo che qui ci interessa, di quanto sia cambiata la video arte. Non il lungo soffermarsi su un dettaglio, brani della vita estratti dal fluire della società, ma un modo nuovo di esprimere le cose, di sottoporle a comprensione, di portarle al di là della normalità. E’ proprio questo che caratterizza l’ arte: offrirci l’ apparenza per andare oltre l’ apparenza.
Dicevano i vecchi professori di comunicazione: troppa comunicazione, nessuna comunicazione, solo rumore di fondo. La video arte si è assunta questo compito: tirar fuori da questo continuo rumore di fondo ciò che ci dà una nuova comprensione della nostra realtà, del nostro senso della vita. Non è più il filmato, il documentario, la foto di un particolare. La video arte fa parlare un oggetto, un confronto (si pensi a Shirin Neshat, la donna araba che non porta più l’ abito nero, veste l’ abito delle ragazze d’ oggi e, tuttavia, resta una donna sola in un paesaggio che non è abitato da altri, veste un abito che portano milioni di donne e Lei è lì, sola con quel suo abito, in quel paesaggio vuoto, dove anche l’ erba cresce stentata).
E’ una video arte nuova. Ci presenta la vita come non può farlo il film, il documentario, la televisione, la fotografia. E’ riuscita a distruggere quello che neanche James Joyce era riuscito, la trama, il senso di un racconto che ha un inizio e una conclusione.
La video arte esprime oggi la realtà della vita, distruggendo la trama, il racconto che nasce cresce, descrive, si sviluppa, si avvia a una conclusione. La video arte oggi ci pone davanti a fatti, immagini, cose, che si stagliano di fronte a noi come montagne a volte impervie, che ti obbligano a fermarti, a pensare Quelli che stanno di fonte a noi non sono solo frammenti della vita, rappresentano, come ha sempre fatto l’ arte, la vita stessa, con la sua durezza, con le sue invalicabilità. Un’ arte che ci lascia anche stupefatti ma che, soprattutto, ci lascia con i nostri problemi, come la vita, purtroppo, ci lascia con i nostri problemi.