Cosa può aver spinto 700 persone di 47 paesi diversi ad andare a Venezia pagandosi viaggio, alloggio e centodieci euro di quota di iscrizione per assistere ad una conferenza di cinque giorni sulla decrescita? Innanzitutto l’età decisamente giovane: il 38% ha meno di trent’anni e solo il 24% è sopra i cinquanta. Poi il genere, con una lieve superiorità femminile. Forse anche il fascino di una città che per l’occasione ha saputo trasformarsi in una festival diffuso (“Altro Futuro”) di buone pratiche di sostenibilità. Probabilmente la formula ibrida scelta per la terza edizione della Conferenza Internazionale che ha messo assieme attorno a settanta tavoli di studio il mondo della ricerca e dell’università con quello degli attivisti dei movimenti e delle associazioni. Ma tutto ciò non sarebbe potuto accadere se non esistesse alla base delle nostre società una gran voglia di trovare vie di uscita innovative alla crisi cui ci ha portato l’economica della crescita. Le ricette riformiste tradizionali, infatti, non possono più funzionare di fronte ad una crisi strutturale e multifattoriale come questa.
Evidentemente l’idea della decrescita, come fuoriuscita netta dall’imperativo sempre più ossessivo e minaccioso dell’incremento della produttività, della competitività e del profittevole (“crescita o morte”), è compresa con favore da molte persone e da gruppi impegnati nella ricerca di modi di vita, di lavoro e di consumo improntati da relazioni umane di qualità. Non a caso il prologo della Conferenza è stato un convegno di due giorni organizzato dal Tavolo italiano dei Gruppi di Acquisto e dei Distretti dell’Economia Solidale, coordinato da Francesca Forno e Davide Biolghini. Una rete di attività economiche ed imprenditoriali che ha scelto di funzionare il più possibile fuori dalle regole del “mercato” (cioè dell’indebitamento e della finanza) seguendo i principi del “ciclo corto”, del rapporto diretto tra produttori e consumatori, di una effettiva responsabilità d’impresa. Si può dire, quindi, che l’idea della decrescita si incarna nell’economia solidale o della convivenza e – più in generale ancora – nella gestione dei beni comuni. Spingendosi ancora più in là, come hanno argomentato nel corso della Conferenza studiosi del calibro di Gilbert Rist, Mary Mallor, Arturo Escobar, Joan Martinez Alier e Majid Rahnema, si tratta di riconcettualizzare la nozione stessa di economia tradizionale (con i corollari: “sviluppo”, “progresso”, “felicità”) per abbracciare quella del “provisioning”, di una attività, cioè, che si fa carico di rifornire ciò di cui la società ha bisogno senza esclusioni e senza intaccare le fonti primarie. Insomma, passare da una economia della scarsità indotta dal consumismo e provocata dalla necessità di incrementare infinitamente il volume del valore monetario delle merci, ad una della sufficienza e del bastevole, cioè della “semplicità volontaria”, per usare le parole di Gandhi o dell’“abbondanza frugale”, come la chiama Serge Latouche.
Ma quale è quella “autorità” che può legittimamente imporre limiti alla natura umana che si ritiene – da Hobbes in poi – dominata dall’individualismo proprietario e dalle sue pulsioni egoistiche e predatorie? Quale rapporto vi è tra decrescita e democrazia? A questo tema sensibile è stata dedicata una intera giornata della Conferenza con relazioni di Marco Deriu, Barbara Muraca, Alberto Lucarelli, Marco Revelli, Ignacio Ramonet ed anche un numero monografico della prestigiosa rivista Future. Sappiamo che vi è un nesso strettissimo tra forme istituzionali e modelli economici. Quelle parlamentari liberali hanno fondato il loro consenso sulla possibilità di redistribuire risorse economiche crescenti. O, quantomeno, di prometterlo. La crisi dei rendimenti e la necessità di ricorrere ad indebitamenti insostenibili per mascherare e procrastinare la crisi economica (Mauro Bonaiuti), mettono in ginocchio anche la fiducia nella vecchia macchina istituzionale democratica. Serve quindi reinventare non solo l’economia, ma anche la politica. Le citatissime nuove Costituzioni dell’Ecuador e della Bolivia (Gustavo Soto) indicano una strada: l’uscita dall’utilitarismo antropocentrico e il riconoscimento di diritti non disponibili e non negoziabili della natura assieme al riconoscimento della sua natura comune (la “natura della Natura”, direbbe Edgar Morin, ricordato da Alfredo Pena-Vega), cioè l’assunzione da parte della politica di una responsabilità planetaria.
Un eco forte di questo dibattito è arrivato fin dentro la Basilica dei Frari, gremita da mille persone per ascoltare Alex Zanoltelli, Marcelo Barros e lo stesso Latouche in un confronto sull’immaginario e la spiritualità come motori per la riconversione ecologica della società.
C’è un altro fondamento antropologico dell’idea di democrazia, di libertà e di proprietà che la decrescita intende affermare. Ma certo non cedendo a “dispotismi tecnocratici illuminati”, ad alcuna illusione di “dittatura benevola”. Al contrario scommettendo su processi cognitivi-formativi dal basso, sulle potenzialità di resistenza dei popoli che abitano la terra e sulla loro capacità politica di intrecciare patti di aiuto reciproco.
Questa terza Conferenza internazionale sulla decrescita sarà ricordata per l’irruzione del punto di vista di genere. Veronica Bennholdt-Thomsen, Alicaia Puleo, Antonella Picchio, Bruna Bianchi, Helena Hodge, oltre alla già citata Mary Mellor e a Marco Deriu hanno ricordato che le istituzioni non sono neutre e che la lontananza maschile dal lavoro di riproduzione segnala una storica divisione sociale e ha come conseguenza la incapacità maschile di affrontare il rapporto con la natura attorno a se, con le proprie emozioni e passioni esistenziali, con le donne, con gli altri e perciò con la stessa politica. La sostenibilità, insomma, non riguarda solo l’“impronta ecologica” che lasciamo sulla terra, ma l’intero mondo delle relazioni umane che sappiamo – o non sappiamo – intrecciare tra tutti gli esseri viventi.
Buone intenzioni – è stato detto da alcuni (ad esempio Onofrio Romano, ma anche da Riccardo Petrella) che non fanno i conti con la realtà dura del potere e delle istituzioni statali. Principi che per altri, invece, si possono già rintracciare in una miriade di esperienze concrete. E qui la rassegna emersa alla Conferenza è stata davvero ricca, come nei casi raccontati da Rob Hopkins, iniziatore del movimento delle Transition Town, o dal documentario Homenaje A Catalunya, o da Silke Helfrich, curatrice del volume The Welth of the Commons o da Maurizio Pallante con il suo Movimento per la decrescita felice o dai laboratori sparsi per la città che in tre giorni hanno prodotto pale eoliche, macchinari in open source, orti sinergici, libri “prodotti dal basso” in Creative Common, corsi di recupero e riciclaggio…
Il silenzio assordante dei principali mass media su un avvenimento che – comunque – avrebbe dovuto incuriosire, promette bene. Almeno non sono possibili fraintendimenti.