E’ da ben più di un anno che il Partito Radicale ha rinvigorito e concentrato il suo impegno sul versante della giustizia ed in particolare sulle carceri quale suo aspetto più scandaloso. Non passa giorno e, anzi, ora senza che dalle frequenze di Radio Radicale le voci di Marco Pannella o Rita Bernardini o di altri importanti esponenti della Lista non ripropongano i numeri impressionanti dell’affollamento carcerario, dei processi civili e penali pendenti, dei suicidi fra i detenuti e le guardie penitenziarie con lo scopo di indicare, quale unica soluzione immediata, l’amnistia onde interrompere la permanente illegalità e dare il tempo alle istituzioni di riformare il sistema. Nessuno ha sin qui proposto alternative.
L’impegno di Pannella ha raggiunto il picco istituzionale il 28 luglio 2011 quando, nel convegno organizzato al Senato per sensibilizzare la politica in argomento, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano invocò la prepotente urgenza di un intervento.
Da allora la coltre del silenzio è tornata a coprire le urla di Pannella e dei suoi. Tutto ciò che concerne le carceri non trova alcuno spazio sui media ed emerge solo di tanto in tanto in qualche trafiletto sulla stampa blasonata.
La Ministradella giustizia Severino se la cava osservando che l’amnistia è un’iniziativa che spetta al Parlamento e in questo rimpallo di responsabilità, senza che alcuno stimoli la discussione, si aspetta che la fine della legislatura trasferisca ad altri la patata bollente.
Lo stesso Presidente Napolitano, in vista dell’imminente scadenza del suo mandato, resiste ad avvalersi del messaggio alle Camere impedendo così lo svilupparsi di un dibattito pubblico sulla questione. Adesso si limita a ricevere al Quirinale la schiera di oltre cento giuristi che, seguendo la firma del Prof. Puggiotto, hanno innalzato al Colle un alto grido di allarme e con ciò finisce col chiudere il problema nel ristretto ambito delle questioni giuridiche mentre esso, di tutta evidenza, ha un respiro sociale, politico e civile assai più ampio.
Viene da domandarsi cosa non va in questa ennesima campagna Radicale per il rispetto del diritto e della legalità, visto che sollecita resistenze addirittura superiori a quelle formidabili che si opposero al divorzio e all’aborto.
Per raccontare la situazione delle nostre carceri sono stati utilizzati i paragoni e le descrizioni più sconvolgenti. Per legge, negli allevamenti i maiali hanno diritto a spazi più ampi di quelli riservati ai detenuti; nelle celle ci sono letti a tre piani e chi dorme all’ultimo non può girarsi per paura di sfracellarsi tre metri più sotto e si sveglia col soffitto a un palmo dal naso; la riservatezza dei cessi è assicurata da un muretto alto un metro all’interno di celle occupate da una dozzina di detenuti. Per non parlare della mancanza d’acqua in molte strutture e, dove c’è, della difficoltà di averla calda; dei pasti cucinati dopo aver dato la caccia ai topi ogni mattina … Cos’altro serve per descrivere una situazione che ha superato ogni limite di sostenibilità?
Eppure nulla si muove e tanti parlamentari che individualmente si dicono favorevoli all’amnistia, in gruppo si defilano rendendosi complici dello status quo. Nessuna mobilitazione, nessun approfondimento, neppure quando il carcere viene presentato come l’aspetto più patologico di un intero settore irrisolto qual è quello della giustizia, ingrippata in tutti i suoi nodi e con risultati che, nel loro complesso, ci collocano dietro agli stati del terzo mondo in tutte le classifiche internazionali.
Si assiste a una rimozione generalizzata, una fuga superstiziosa, un esorcismo collettivo nella convinzione di non incappare mai nelle maglie della giustizia. Come se gli Enzo Tortora non esistessero e non fossero esistiti mai.
Ma non può essere solo la molla del particulare, la paura della “botta dell’asino” di una volta nella vita a spingere al confronto con l’attuale insostenibile situazione delle carceri italiane.
Quando si votò ai referendum per l’aborto e il divorzio i favorevoli furono tanti, ma certo non tutti pensavano che avrebbero personalmente abortito o divorziato. Si votava per un progresso della nostra società affinché, in caso di bisogno, chiunque potesse compiere scelte legittime senza ricorrere a sotterfugi illegali.
L’intervento normativo sullo stato delle carceri deve rispondere alla medesima volontà di adeguare la legislazione italiana agli standard più elevati di civiltà e di tutela dei diritti umani che furono alla base delle leggi sul divorzio e sull’aborto. La generosità, l’altruismo e la sensibilità di cui gli italiani diedero prova in quei risalenti referendum non sono evaporati e si ritrovano in quei vasti movimenti che si sono manifestati anche in tempi recenti colorati di viola o a sostegno dei referendum sull’acqua e il nucleare o nei raduni del “se non ora quando”.
Condurre alla meditazione sul problema delle carceri quelle masse sensibili ai diritti dovrebbe essere compito primario non solo del Presidente Napolitano ma anche di un governo che, come quello attuale, sente profondamente i richiami dell’Europa.
Monti non può attenersi al dettato europeo quando si tratta di far stringere la cinghia agli italiani e non quando dall’Europa piovono condanne su condanne per lo stato della nostra giustizia. In Europa non ci si sta a pezzi e bocconi, premendo l’acceleratore sui sacrifici e il freno sui diritti anche perché sacrifici e diritti sono le facce di una stessa medaglia. I sacrifici si accettano solo in presenza di equità e legalità e il trascurare uno di questi due aspetti è alla base della confusione e del disorientamento che caratterizzano questi mesi di parentesi montiana, in cui si scatena il mastino Equitalia sui contribuenti ma si cincischia conla Fiat, non si pretendono immediate dimissioni dalla Polverini che bussa alla porta, ma si strepita contro l’evasione fiscale. Rimettere immediatamente al centro del dibattito politico i diritti fondamentali dell’uomo, specie quando è completamente ristretto nelle mani dello Stato che non può e non deve torturare, aiuterebbe i cittadini a prendere maggiore coscienza dei problemi del vivere in collettività e del rispetto che sempre si deve a ognuno, fosse anche il peggiore dei malviventi. Un dibattito al quale tutti dovrebbero sentirsi interessati, se non per sensibilità civica, quanto meno perché la “botta dell’asino” che ti porta in gattabuia è dietro l’angolo della strada di ognuno.