«Un plotone di suore». Il generale Luigi Ramponi, ora senatore del Pdl, è il più esplicito: «Se in Irak avessimo voluto fare un intervento umanitario avremmo inviato un plotone di suore. Quello è stato un intervento bellico vero e proprio». Ci sono molte cose che le vecchie gerarchie militari italiane non sopportano: che in Italia (e solo in Italia) si debba chiamare la guerra con un altro nome (missioni di pace); che i politici dicano quali armi usare o non usare nel campo di battaglia (in Kosovo come in Afghanistan); che il Parlamento “pretenda” di decidere come ristrutturare e riorganizzare le Forze armate, quali armi comperare o rottamare; che il Paese non riconosca sino in fondo la loro importanza, la loro funzione, il loro valore.
Ma, anche per loro, il problema più grande oggi è un altro e si chiama crisi economico-finanziaria. I soldi non ci sono più. L’illusione di continuare ad aumentare la spesa militare è archiviata e ora tocca davvero fare i conti con la spending review. Ne è ormai convinto obtorto collo anche il ministro tecnico della Difesa, l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, che il 25 settembre ha concluso il convegno sul ruolo dell’Italia nelle missioni internazionali organizzato presso la Camera dei Deputati dallo Iai (Istituto affari internazionali) e dall’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale).
Il problema resta “come fare” e “cosa fare”. e soprattutto: con quali obiettivi? Le tesi emerse nel corso del convegno – un convegno blindato, senza contraddittorio – ci debbono preoccupare non tanto per il contenuto quanto per la totale assenza di una riflessione critica sulle sfide internazionali che il nostro Paese è chiamato ad affrontare e sugli strumenti più appropriati per fronteggiarle. Un vuoto, che è innanzitutto politico, che ci deve allarmare perché lascia il nostro paese privo di una visione e di un progetto in grado di affrontare il tempo lungo e difficile della crisi e del cambiamento che stiamo vivendo.
Le idee del ministro sono tanto semplici quanto disarmanti. Tutte centrate nella difesa dei privilegi e delle ambizioni delle vecchie alte gerarchie. Sono passati trent’anni da quando abbiamo fatto la prima missione di pace in Libano. Da allora siamo cresciuti (leggasi le Forze armate), ci siamo liberati della sindrome degli sconfitti (ultima guerra mondiale), abbiamo imparato sul campo a fare la guerra e anche a costruirci delle buone armi (leggasi Finmeccanica), abbiamo inventato i soldati di pace e la via italiana alle missioni militari e oggi molti ci vogliono copiare, non abbiamo nulla da invidiare agli altri, abbiamo tenuto alta la bandiera dell’Italia nel mondo. Ora dobbiamo salvaguardare la nostra “capacità operativa” (leggasi fare la capacità di andare in guerra a 300, 6000 o 10.000 chilometri da casa nostra).
Per questo, prosegue una certa scuola di pensiero, il Parlamento deve lasciar fare senza troppe discussioni che fanno solo perdere tempo, deve approvare entro la fine dell’anno il disegno di legge delega (in bianco) oggi in discussione al Senato e deve garantire
1) che non ci saranno altri tagli di bilancio,
2) che per i prossimi 12 anni ci saranno almeno le stesse risorse previste ora,
3) che appena possibile ci dovranno essere nuovi finanziamenti soprattutto per l’industria bellica e le nuove armi come gli F35 che vanno assolutamente comprati per restare nel primo gruppo degli interventisti.
La politica, termina questo indirizzo geostrategico-economico, deve sostenere e si deve impegnare di più per far passare queste idee nell’opinione pubblica. Di fronte a questa situazione – non meno grave delle tante altre che stiamo sopportando – è necessaria una più ampia assunzione di responsabilità. Di tutti quelli che vogliono salvare e cambiare questo Paese. Il primo obiettivo concreto e immediato è impedire l’approvazione nelle prossime settimane di una riforma delle forze armate finta, costosa e pericolosa.
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