Ieri l’economista Masciandaro scriveva che dal 20 al 30 per cento dell’economia italiana è illegale e che “un terzo del nostro paese è contrario alla trasparenza”. Perciò è urgente e difficile avere norme anticorruzione efficaci. In attesa, a Milano si uccide sparando in motorino come a Casal di Principe; a Roma la ‘ndrangheta è in guerra con la camorra per il controllo del litorale. A Napoli invece, con geniale soavità, si stilla legalmente un reddito anche dalla dadaistica autorappresentazione dell’ economia malavitosa. Si chiama “tour dell’illegalità” e – informava un giornale cittadino – si svolge in sei tappe dalle 9 alle 13, lungo l’asse Porta Nolana- corso Umberto. Si possono ammirare: prostitute diurne al lavoro, borseggiatori in azione, extraterritorialità di parcheggiatori abusivi, un mercato di generi alimentari fuori norme europee e, soprattutto, il supermercato del falso. Qui i camorristi realizzano superguadagni del 1500 per cento, acquistando dischi vergini a 30 centesimi e rivendendoli come dvd porno, film non ancora in sala, album appena annunciati di canzoni, a 5-7 euro. Non è certo il cuore dell’illegalità italiana, ma è la “cultura” di una fetta del popolo italiano. Contro di essa nulla possono Monti e Severino, e neanche la Cancellieri. E’ sperabile che possano qualcosa almeno dove matura il grosso dell’economia illegale, che secondo la Banca mondiale ci toglie tra il 2 e il 4 per cento del reddito. E ci dà una minor crescita del 3 per cento del settore delle imprese. Si tratta dunque non dei vecchi “bassi” e delle nuove “villette”, ma della connection economia-politica-banche-finanza-professioni-pubblica amministrazione.
Per ri-denunciare queste cose, Paola Severino è scesa su Cernobbio come Mosè dal Sinai con le tavole della legge. Anzi della proposta di legge, quella dell’ anticorruzione, che ieri ha fatto la sua prima comparsa in commissione al Senato, dopo un’attesa di tre mesi. A Montecitorio infatti era stata approvata il 14 giugno, ma con una riserva della destra: approvare anche il secondo e il terzo ddl del pacchetto giustizia, cioè imbavagliamento delle intercettazioni e responsabilità civile dei giudici. Fermi questi, anche l’anticorruzione rischia ora di non passare: Alfano ha ripetuto a Cernobbio che il parto sarà consentito solo se trigemellare. In modo che il secondo e il terzo provvedimento possano sterilizzare il primo, trasformandolo in una grida da governatori spagnoli.
Già, perché il ddl anticorruzione osa rivalutare le pene per reati borghesi che il regime berlusconiano aveva a sua volta sterilizzate (falso in bilancio a parte): da 4 a 10 anni per corruzione in atti giudiziari, da 4 a 6 per la concussione, da 3 a 4 pena minima per il peculato. In più, incandidabilità al parlamento nazionale ed europeo del condannato a più di 2 anni per mafia o corruzione; divieto per costoro di appalti con la P.A.; risarcimento alla P.A. da parte del dipendente infedele, con somma doppia di quella percepita; carcere da 1 a 3 anni per traffico di influenze illecite e corruzione fra privati (reati nuovi); lista delle ditte pulite in ogni prefettura e monitoraggio di ogni procedimento, opera e servizio; Authority anticorruzione per prevenzione e contrasto; autorizzazione della P:A. per gli arbitrati; tutela del dipendente che denuncia la corruzione; nessuna deroga ai limiti imposti ai magistrati fuori ruolo che assumono doppi incarichi. “L’esecutivo – dice la ministra – tiene molto all’approvazione di questa legge perché sa quanto la sua mancanza nuoccia allo sviluppo del paese”.
Ci terremmo molto anche noi, perché sappiamo come siano andate le cose dalla nascita dell’Italia unita: a cominciare dalle “corazzate di latta” della regia marina, quando si cominciò a rifarla dopo le imprese di Persano a Lissa. A quel tempo, e per tutto il residuo Ottocento, le regalie a deputati, ammiragli, funzionari, appaltatori per ridurre lo spessore delle corazze, si chiamavano “zuccherini”. Noi novecenteschi, più grevi, le abbiamo chiamate tangenti. Ma è sempre scambio di latta contro marenghi. Così, ladri e mafiosi hanno imparato che in Italia contro la legge si può tutto: anche tenere incompiuta per 40 anni la Salerno-Reggio Calabria. Ai tempi di De Gasperi e di Scelba, un alpino spicciativo e un siciliano dal manganello facile, l’Autostrada del sole Milano-Napoli fu fatta in otto anni, sforacchiando gli Appennini e volando sulle pianure. Altro che ‘ndrine e camorre, No Tav e centri sociali. “Perfino Jefferson, con i suoi 19 anni per il rientro dal debito, avrebbe approvato un debito pubblico così bene impiegato”, scrivono Enrico Morando e Giorgio Tonini ne L’Italia dei democratici: idee per un manifesto riformista (Marsilio editore, agosto). Buona lettura, per il partito che si riconosce nella tradizione di Amato, Ciampi e Prodi: tre che non ci andavano con la mano leggera se chiedevano sacrifici, ma distinguevano fra debito pubblico buono e debito cattivo, quello che da anni minaccia di farci affogare. E che sarà difficile far capire oggi a chi lavora all’Alcoa o nel Sulcis e in tutto il residuo apparato dell’autarchia.
Ce la farà Paola Severino a darci la sua legge? La destra dice “manco con la fiducia”, se non ci date la testa dei magistrati. Così si rischia di lasciare la lotta alla corruzione alle sole procure, com’è ormai da decenni con le connesse deviazioni, per colpa di settori politici direttamente interessati alla sconfitta dello Stato in quella lotta. E che continueranno a trincerarsi dietro il rifiuto del “giustizialismo”. Ma di fronte all’Europa e ai suoi fulmini benedetti, noi non avremo dove trincerarci.
* Pubblicato su Europa Quotidiano