La resistenza è un esercizio? In tempi duri come quelli che non solo l’Italia, ma l’Europa intera e il Mediterraneo in particolare stanno vivendo, probabilmente si. È un esercizio che richiede impegno e soprattutto passione, come quella che ha richiesto questa edizione del SalinaDoc fest, non la sesta, come avrebbe dovuto essere, ma un’edizione speciale realizzata senza l’ausilio dei fondi regionali promessi e mai arrivati. E qui il termine “speciale” merita una digressione, perchè se il festival è stato costruito ed è riuscito a partire è grazie al contributo delle isole Eolie e degli isolani, che a questo appuntamento sono ormai profondamente legati, dalle amministrazioni comunali, fino agli esercizi commerciali dell’isola, al più comune cittadino, ivi compreso il “bambino senza nome” di Vulcano che al festival ha ceduto la sua paghetta settimanale, come ricordato dalla lettera di Paolo e Vittorio Taviani, letta in maniera commossa da Sasà Striano, il Bruto di Cesare non deve morire.
Ma l’esercizio di resistenza è di tutto lo staff: “La parola “ resistere” – scrivono i Taviani- è abusata, lo sappiamo bene, eppure dobbiamo essere sfrontati e continuare a usarla. Lo sa l’equipe che per un anno, senza retribuzione, ha costruito pezzo per pezzo un programma ricco di eventi. Lo sa sanno tutti coloro che hanno dato e danno il loro contributo di lavoro, di danaro, per la cultura in un’isola che amano…”
E, se possiamo aggiungere a margine, resistenza sarà anche quella del pubblico che avrà a che fare con un calendario fittissimo di proiezioni, workshop e incontri con gli autori, il tutto condensato in soli tre giorni che vedranno lo schermo riempirsi di vissuti reali o immaginari, di ipotesi magari e risposte possibili, come quella attorno a cui ruota il concorso di quest’anno legato ad uno degli interrogativi più inquietanti:”Quale futuro?”.
Ai giovani documentaristi tirati in ballo l’arduo compito di raccontare il presente con uno sguardo che riesca ad andare oltre e spinga lo spettatore a creare, da se forse, la risposta che ancora non c’è in un contesto sociale e politico attraversato, nell’anno che ormai si sta per chiudere, da ampi aneliti di rinnovamento.
Già premiata lo scorso anno dalla giuria popolare, Rossella Schillace conquista anche quest’anno il pubblico di Salina con il suo Il limite, racconto intenso ed emotivamente partecipato della vita dei pescatori di Mazara del Vallo. Realizzato tra la terra ferma e il mare, Il limite è prima di tutto la rottura di un tabù, quello che ha consentito alla documentarista di oltrepassare un territorio prettamente maschile, ma è anche lo specchio di una realtà cangiante, di confine, laddove gli equipaggi sono ormai composti quasi esclusivamente da tunisini approdati in Italia nella speranza di un futuro migliore, e la pesca non è più quell’attività redditizia che un tempo sfamava intere famiglie. Ma limite è anche il silenzio tra i membri dell’equipaggio, limite è il tempo dell’attesa in barca per gettare le reti e tirarle a bordo nella speranza che la pesca sia stata buona, e, limite è il tempo dell’attesa delle donne che rimangono sulla terraferma chiuse in un tempo circolare identico, seppur diverso nelle attività svolte, a quello dei loro uomini. Limite, infine, è quello valicato dai barconi di migranti che oltrepassandolo arrivano stremati fino a Lampedusa e fanno irruzione sullo schermo rompendo il ritmo circolare, vivi e non morti e ripescati da qualche rete. Racconto corale e intenso perfettamente riuscito, tra immagini e ricordi, di un mondo che resiste e che si interroga anch’esso sulle possibilità future.
Taglio interessante per The Golden temple, di Enrico Masi. Frutto di un lavoro collettivo, The Golden Temple, passato anche per Venezia, rasenta a tratti l’inchiesta giornalistica senza però sconfinare in essa e offre allo spettatore inconsapevole l’altra faccia della medaglia, quella delle Olimpiadi di Londra 2012, eretto ad emblema di ciò che si nasconde dietro il fenomeno dei grandi eventi, l’affarismo più spietato capace di cancellare in un colpo solo intere esistenze e tessuti sociali. Dal racconto individuale, a frammenti, il dramma collettivo di una trasformazione in atto ma non voluta. Nonostante qualche virtuosismo di troppo, il racconto restituisce il senso dell’offesa del diritto calpestato e vi risponde con un pizzico di ironia.
Una sala gremita fino all’orlo è invece quella che accoglie Il resto dell’anno di Michele di Salle e Luca Papaleo, un vero e proprio atto d’amore nei confronti dell’isola di Salina e dei suoi abitanti raccontati nella loro quotidianità, el loro essere isolani… le immagini scorrono come tante cartoline regalando ad uno stupefatto e lontano spettatore la bellezza dei luoghi, gli scorci, la difficoltà di una natura non sempre amica, il tutto condito da una leggera malinconia il tutto, la malinconia di un figlio (Michele è un abitante di Salina) che crescendo sa che un giorno dovrà staccarsi dalla madre e intraprendere la sua strada forse lontano dalla sua terra.
Cadenas di Francesca Balbo ha invece aperto la sezione fuori concorso de “Le donne raccontano”, interamente dedicata allo sguardo femminile.
Cadenas, nella sua trama minimalista si offre ancora una volta come una riflessione sul tempo. Un tempo dilatato e immobile, nella ripetizione di un gesto che è quello di aprire e chiudere la catenella per far passare un treno. Protagoniste ancora donne, incastrate in un attesa che sembra non aver termine, attesa vuota anche di parole, in una dimensione dove tutto sembra essersi fermato e solo i l telefono cellulare rappresenta la contemporaneità, quella che minacciosamente attende dietro l’angolo e ha le sembianze di una sbarra elettrica che presto sostituirà il gesto umano cancellando per sempre un gesto tramandato da madre in figlia. Riflessione sul tempo, ma ancora una volta sul cambiamento inevitabile e a tratti distruttivo di equilibri che sembravano consolidati.
Ospiti d’onore di questa prima tranche di festival, il Cesare non deve morire dei Taviani e Il gemello di Vincenzo Marra incastrati nella sezione Le Carceri raccontano; omaggio speciale a Gianfranco Rosi, tra i membri della giuria con la proiezione di Boatman, nella mattinata di ieri. Girato nel 93, Boatman è collocabile nell’ambito dei documentari antropologici ma ha lo sguardo curioso e appassionato di chi osserva un luogo ed una cultura profondamente altra per la prima volta. La sacralità dell’India scorre lentamente assieme alle acque del Gange in un bianco e nero che inchioda alla poltrona e invita a proseguire il viaggio magari in compagnia dello stesso barcaiolo che si rifiuta di rispondere ai perchè del mondo occidentale dicendo solo: “ ma questa è la cultura induista…”
E la risposta a quale futuro comincia ad emergere progressivamente e lascia lo spettatore con la risposta trovata, infine dai protagonisti della Nave dolce di Vicari, dove il futuro era al di là del mare in una terra che non poteva più essere l’Albania.
Viste le premesse potremmo dire che l’esercizio sta funzionando…