Ognuno di noi in cuor suo capisce perfettamente che il mondo si è infilato in un vicolo cieco. Che la crisi economica in Occidente è irreversibile, che la concorrenza spietata tra imprese e aree geografiche per riuscire a produrre sempre più merci a minore costo ci porta alla catastrofe ambientale e alla miseria. Peggio, lo spettro del fallimento delle imprese e del default degli stati è usato dai governi come arma di ricatto per far passare provvedimenti antipopolari, per far arretrare le condizioni di lavoro e i diritti sociali. La disoccupazione e la perdita di potere d’acquisto di salari e pensioni sono il portato di un fallimento delle politiche economiche liberiste iniziate trent’anni fa: deregolamentazione legislativa, liberalizzazione dei mercati, finanziarizzazione. Siamo entrati in un regine di dittatura della finanza; più precisamente, di strapotere dei possessori di titoli di credito. Capitalisti che possono pretendere di strozzare i debitori (amministrazioni pubbliche, imprese e famiglie) imponendo interessi da usurai. La situazione è ben descritta in un e-book La repubblica dei beni comuni, scaricabile gratuitamente da internet al sito www.democraziakmzero. L’egemonia della “ragione economica” sulla politica porta a regimi “post-democratici”, tecnocratici, autoritari, quasi che sia possibile considerare la democrazia un lusso per periodi di vacche grasse, mentre l’“emergenza” richiederebbe governi dispotici.
Ma come si fa ad uscire dal morso della crisi? A non essere travolti dal “crack” del capitalismo?
Ognuno di noi si rende ben conto che la crisi di insolvenza e di competitività del sistema economico occidentale (ad incominciare dalle aree periferiche più deboli, i cosiddetti Piigs) è strutturale, sistemica, nient’affatto congiunturale. Non un incidente di percorso, non una parentesi che si possa chiudere in fretta per tornare ai begli anni d’un tempo orami irreversibilmente trascorsi. Non bastano “manovre di bilancio”, trucchi e contro trucchi delle banche centrali. Ci sarebbe bisogno di una svolta profonda nelle politiche economiche, nel credito, nella moneta, nel funzionamento degli strumenti istituzionali internazionali che però nessun governo e nessuna maggioranza parlamentare intende avviare, terrorizzati dalle minacce di “fuga dei capitali”, chiusure di fabbriche e delocalizzazioni degli impianti. Il cane si morde la coda.
Ecco allora, che – in attesa che le rappresentanze istituzionali politiche prendano coscienza e coraggio – alla base della società cominciano a fiorire isolati ma significativi esperimenti di altra economia e di altra società. L’“economia del noi”, è stata chiamata. Economia sociale, solidale, civile. Non orientata al profitto, ma alle relazioni e alla produzione di beni con un effettivo valore d’uso. Filiere corte, cicli ambientalmente e socialmente controllati, all’interno dei quali consumatori e produttori riescono a conoscersi e a stabilire rapporti fiduciari, orizzontali, reciproci, Persone che hanno scelto liberamente di mettere in comune i propri saperi e i propri averi.
I Gruppi di Acquisto Solidali ne sono l’esempio forse più conosciuto. Ma le esperienze non si fermano all’agricoltura biologica e si estendono anche ad altre categorie di beni: scarpe, vestiario, servizi alla persona. Banche del tempo, mutuo aiuto, condivisione di mezzi di trasporto, di abitazioni, di luoghi e strumenti di lavoro a partire dai software. Cosa hanno i comune tutte queste realtà che si stanno generando? Ciò che i latinoamericani chiamano“la producción de lo común”: il recupero e il consolidamento di logiche associative, pratiche politiche e sociali, forme locali di organizzazione della vita centrate sulla capacità collettiva di autoregolare aspetti significativi della vita in comune e generare benessere per la comunità. Esistono anche da noi esperienze significative. Due dozzine sono state raccontate in un libro collettaneo L’Italia dei beni comuni (Marotta&Cafiero, pp.246 10 euro), edito con il metodo della “produzione dal basso”in Creative Commons e scaricabile da internet. Citiamo alcuni dei casi trattati: l’autocostruzione post-terremoto in bioarchitettura di case a Pescomaggiore, la gestione degli usi civici della laguna di Marano, dei boschi di Pesariis, dei campi di Costacciaro, del Bosco della Partecipanza di Trino, delle terre civiche in Ogliastra, il recupero delle terre confiscate alle mafie, la gestione dei il Teatro Valle di Roma, gli orti urbani alla Giudecca a Venezia, il restauro del borgo di Torri Superiore, i condomini in co-housing, i casali occupati del Monte Peglia, la solarizzazione di Morbegno, i consorzi idrici nell’Oltrepo Pavese. E molti altri casi ancora. Ha scritto Giuseppina Ciuffreda che i beni comuni “sono laboratori viventi, crogioli alchemici, producono innovazione spinti da sensibilità, bisogni, desideri che non possono essere soddisfatti da società consumistiche votate al libero mercato”. Un modo per rompere nelle concrete pratiche delle vite di ciascun essere umano il dualismo tra l’io e il noi, l’uso delle risorse naturali e la produzione di beni utili. La prefigurazione di un sistema produttivo che non causa devastazioni materiali e sofferenze psicosociali. Esperienze che ci dicono che un’altra società, una green society, sarebbe non solo possibile, ma anche migliore. Solo se la politica si accorgesse che è necessario imbrigliare il “libero mercato” introducendo clausole sociali ed ecologiche corrispondenti a principi e scale di valori etici.