Chi, al di là della propria attuale posizione professionale, dedica un po’ di tempo della sua vita, a seguire la politica italiana, è stupito non poco da quello che sta succedendo a proposito del problema storico, prima che politico, riguardante i rapporti tra mafia e Stato nel nostro paese.
Lo ha sottolineato stamane il procuratore aggiunto della repubblica di Palermo,Vittorio Teresi, che, intervistato da Il fatto quotidiano, ha dichiarato due cose molto significative a proposito della trattativa, di cui ho parlato anch’io giorni fa proprio su questo sito: la prima è che l’iniziativa del presidente Napolitano sul conflitto tra organi dello Stato presso la Corte costituzionale (di cui avremo a settembre la decisione, a quanto pare), “viene utilizzata in maniera impropria e strumentale da chi ne fa un ulteriore elemento di aggressione alla procura di Palermo”; la seconda è che Teresi non vede “l’ombra di un’attività altrettanto forte sul piano istituzionale per arrivare alla verità sulla stagione delle stragi” del 1992-93.
L’intervistatore del magistrato, a questo punto, gli chiede se il lavoro dei pm “può far paura a qualcuno che abita i palazzi romani”. E il magistrato non può che assentire, a parte l’accenno a prima e seconda repubblica che per me non esistono ma che ai giornali piacciono tanto come distinzioni chiarificatrici.
La verità è che, al di là della piega che ha preso il quotidiano romano, ormai conquistato non so perché alla deriva dipietrista ormai uscita dal centro-sinistra e guadagnata all’incerto grillismo, le risposte del pm Teresi, che si uniscono alla forte solidarietà espressa da una buona parte della magistratura rispetto agli attacchi furibondi contro Ingroia e Scarpinato, pongono il problema delle trattative nella maniera giusta.
Se quelle trattative sono ormai un problema storico (il cui inizio è incerto ma non è quello degli anni novanta del Novecento di cui si parla oggi, visto che la coabitazione tra associazioni mafiose e organi dello Stato è un fenomeno che addirittura precede di sicuro l’unificazione nazionale italiana e accompagna gli ultimi decenni del governo borbonico nelle due Sicilie) è indubbio il fatto che oggi stupisce l’inerzia degli organi decisori, dal governo al parlamento, di fronte a quel problema.
Tanto più che sono in corso a Palermo e a Caltanissetta (ed esiste altresì una sentenza come quella di Firenze per l’attentato del 1993 ai Georgofili) procedimenti giudiziari contro esponenti eminenti del precedente esecutivo, dall’on. Berlusconi al senatore Dell’Utri sempre a proposito di quelle oscure trattative.
Ho ascoltato in tv, ad ora tarda, se non ricordo male, un’intervista fatta all’attuale presidente della commissione Antimafia, senatore Pisanu, oggi in po’ in freddo con l’onorevole Berlusconi, che nulla ha detto rispetto alla relazione conclusiva della commissione né poteva fare altrimenti visto che non sappiamo ancora con certezza quando avrà fine la sedicesima legislatura.
Ma credo di poter dire che non sarà quella commissione a poter togliere – come si dice – le castagne del fuoco di una questione così calda e scottante da spingere grandi editori come Einaudi a rifiutare, senza neanche leggere il manoscritto del saggio, di impegnarsi su una storia delle trattative Stato-mafie.
E’ tipico del nostro paese, e spesso proprio di chi ci governa, mettere la spazzatura sotto il tappeto e accantonare le questioni che possono provocare contrasti non solo nella propria parte politica ma ancora peggio nell’una e nell’altra parte dell’intero schieramento parlamentare. E non c’è dubbio per quel poco che sappiamo che qui potremmo trovarci proprio in uno di quei drammatici casi.
Ma una simile eventualità che vedrebbe il coinvolgimento di esponenti dell’una e dell’altra parte politica dovrebbe spingere – io credo – un governo come quello presieduto dal professor Mario Monti a cercare di far chiarezza su quello che si presenta all’opinione pubblica più attenta come l’ultimo ma non il meno importante tra i tanti misteri della nostra amata repubblica.