Arrivò dal mare a cavallo di un delfino, Taras, figlio di Poseidon, e vi fondò Taranto. Così vuole la leggenda, particolarmente cara a Carmelo Fanizza, 36 anni, biologo marino e presidente della Jonian Dolphin Conservation, la Onlus che si occupa di studiare e proteggere la colonia di 200 delfini che popolano il Golfo di Taranto. Si finanziano portando i turisti con la barca in mezzo a queste creature, partendo da Porto Canale, a Ginosa Marina. Noi vediamo i delfini giocare a pochi passi dal gommone, proprio al largo dell’ILVA. La loro presenza in questi mari ha del miracoloso. Carmelo non chiede nulla, come i suoi delfini, a parte continuare le ricerche: “Sappiamo che a largo ci sono i capodogli, ma per andare a studiarli servirebbe qualche sponsor”.
Davvero, “Taranto è la città dei paradossi”: ci aveva avvisati Flavio Colucci, giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno, che insieme a Valentina Petrini, cronista trentenne tarantina, ci accompagna per il rione Tamburi. Siamo a un passo dall’ILVA, dove si contano 600 morti l’anno per patologie riconducibili ai devastanti tassi di inquinamento e alla presenza delle terribili polveri.
“Teniamo le finestre chiuse con i doppi vetri, ma non basta. Questa roba arriva dappertutto con il vento di Tramontana. Ce la troviamo anche tra le lenzuola” dice Maria Pavese, moglie di Cataldo Portacci, 85 anni, maestro d’ascia e carpentiere che da sempre vive e si batte a Tamburi.
Cataldo ci apre la porta di casa per darci qualche elemento della complessità. Migliaia di persone che rischiano la disoccupazione, da un lato. Morte, malattia e perdita dell’identità cittadina, dall’altro. Ci racconta della trasformazione di Taranto, un tempo famosa per i suoi “cozzaroli”. Dell’inquinamento delle acque e dell’aria, dovuto, oltre che all’ILVA, anche alla raffineria e all’arsenale.
La cittadinanza, in queste ore di attesa della sentenza del riesame sul sequestro degli impianti ILVA, è divisa su tutto. Sulle prospettive della città. Sull’eventuale chiusura dell’acciaieria. Sul movimento sorto in questi mesi da giovani e operai tarantini “Operai liberi e pensanti”.
Dopo che per decenni la presenza dell’acciaieria non è mai stata messa in discussione, dopo che la politica e le istituzioni hanno perso del tutto credibilità e autorevolezza, dopo che anche i corpi intermedi hanno scelto senza troppe esitazioni la difesa del lavoro anche a scapito della salute, è evidente che gli schemi del Novecento non bastano più.
E Taranto, mentre i media nazionali aspettano la sentenza del riesame, non aspetta più. Perché non si può più aspettare di fronte a questa bomba ecologica. Perché i giovani, disoccupati e privati del futuro, non aspettano più che i sindacati e i partiti rappresentino anche loro. E irrompono nelle piazze degli operai. E perché i tarantini faticano a credere che qualcosa possa ancora succedere.
E’ curioso che proprio questo movimento abbia iniziato le sue lotte con un manifesto raffigurante i delfini e la scritta “C’è ancora speranza”. Sì, perché per avere speranza, serve qualcosa ancora da salvare.