di Lorenzo Frigerio
Il caldo spossante delle settimane agostane, nonostante le ottimistiche previsioni del tempo, non accenna a diminuire e i danni collaterali sono ormai di evidenza palmare. Non ci riferiamo, però, alle pur rilevanti perdite del comparto agricolo che vanno ad aggravare il quadro economico del nostro Paese, ma piuttosto allo scempio di verità cui stiamo assistendo negli ultimi giorni.
Infatti, con un repentino cambio di scena, siamo passati dai finti scoop sulla trattativa tra Stato e mafia nel biennio 1992/1993, utilizzati per sminuire la portata delle nuove acquisizioni investigative sula strage di via D’Amelio, alle vere bufale create per avvalorare l’esistenza di un’altra trattativa, quella avvenuta tra Quirinale, intermediata dall’Avvocatura di Stato, e Procura della Repubblica di Palermo in questa estate 2012.
Il finto scoop
Una contrattazione serrata che avrebbe avuto per oggetto la distruzione delle registrazioni delle telefonate intercorse tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex presidente del Senato, nonché ex ministro dell’Interno Nicola Mancino.
Una fallita mediazione che, in realtà, non è mai avvenuta, ma la cui semplice evocazione avrebbe ulteriormente esacerbato i contendenti, tanto da costringere il procuratore della Repubblica di Palermo, Francesco Messineo, a rilasciare un comunicato stampa per smentire il presunto rifiuto che sarebbe stato opposto dal suo ufficio ad una simile eventualità.
Eppure “La Repubblica” in diversi articoli comparsi in questi ultimi giorni ha inteso accreditare la versione di un tentativo, naufragato miseramente, da parte dell’Avvocatura di Stato di trovare una soluzione con gli inquirenti del capoluogo siciliano che evitasse quello che è poi avvenuto: la sollevazione di un conflitto di attribuzioni di fronte alla Corte Costituzionale.
La realtà è ben diversa e Messineo ha ribadito che non vi è stato alcun intervento di quelli che vengono annoverati tra i “falchi” della Procura palermitana – Ingroia e Di Matteo in primis – per stoppare sul nascere ogni possibile accordo che lui, in quanto esponente delle “colombe”, avrebbe sponsorizzato volentieri. E neppure ci sono stati incontri con l’Avvocatura dello Stato per risolvere la questione prima che divenisse di pubblico dominio: «assolutamente infondato», secondo il procuratore capo di Palermo.
Persino il Quirinale si è dovuto esporre per ricordare che a far fede, nella ricostruzione dei rapporti con la Procura di Palermo, è solo il decreto del 16 luglio scorso, quello in cui si comunicava il mandato all’Avvocatura di Stato per avviare la procedura prevista dalla Costituzione.
E neppure vi sarebbe stata alcuna richiesta di distruzione delle telefonate intercorse tra Napolitano e Mancino, fuori dalla procedura prevista dall’ordinamento attuale e perciò stesso illegale. Una materia quella in esame che pure presenta lacune evidenti e che ora corre il rischio di modifiche ispirate dalle polemiche in corso: non certo un buon viatico ad una pur necessaria integrazione che serva per il futuro.
L’interlocuzione tra Avvocatura dello Stato e Procura palermitana è stata soltanto affidata alla richiesta di conferma delle indiscrezioni pubblicate da alcuni quotidiani in merito al contenuto delle intercettazioni tra Mancino e Loris D’Ambrosio prima e Mancino e Napolitano poi.
La miccia che ha innescato il divampare dell’incendio è stata l’intervista a Nino Di Matteo de “La Repubblica” pubblicata il 22 giugno scorso. Il pm palermitano aveva escluso la presenza negli atti depositati di conversazioni in cui uno degli interlocutori fosse il Capo dello Stato, ma con riferimento alle intercettazioni ancora da mettere a disposizione delle parti in causa, aveva aggiunto questo passaggio: «Quelle che dovranno essere distrutte con l’instaurazione di un procedimento davanti al gip, saranno distrutte, quelle che riguardano altri fatti da sviluppare saranno utilizzate in altri procedimenti».
Successivamente a queste dichiarazioni, il Quirinale avrebbe deciso di sollevare il conflitto di attribuzioni davanti alla Corte Costituzionale e il Consiglio Superiore della Magistratura avrebbe avviato un procedimento disciplinare nei confronti di Messineo e Di Matteo, quest’ultimo per avere parlato con la stampa senza autorizzazione del primo, reo a sua volta di omesso controllo nei confronti del suo sostituto.
I “giornali-partito” e la trattativa
Anche da questo episodio, si capisce come in questo repentino mutamento di visuale, che ha comportato la drastica riduzione delle rilevantissime vicende, processuali e non, riguardanti il patto scellerato tra istituzioni e cosche ad una delle ennesime liti da cortile tra politica e magistratura, un ruolo di primissimo piano lo stia giocando proprio la grande informazione. Purtroppo, dobbiamo aggiungere. Anzi, nel corso di queste ultime settimane, le posizioni si sono radicalizzate a tal punto che al cittadino/lettore oggi viene chiesto di “arruolarsi” seduta stante in questo o in quel partito, pena l’estromissione dal consesso dei liberi pensatori.
Due gli schieramenti in campo, due le fazioni che si scontrano oggi nella tradizione italiota dei guelfi e dei ghibellini. Tradizione dura a morire e già foriera in passato di danni inenarrabili.
Se si intende sostenere – acriticamente insinuano i detrattori di questa posizione – l’opera dei magistrati palermitani e nisseni che cercano di venire a capo delle misteriose vicende del 1992 si è inseriti d’ufficio tra le truppe de “Il Fatto quotidiano” che con Grillo e Di Pietro punterebbe alla costruzione di un partito giustizialista, oppure forcaiolo nella variante degli oppositori.
Se si sposano le tesi difensiviste schierate a supporto delle prerogative quirinalizie – altrettanto acriticamente, ribattono i detrattori di questa seconda linea – invece si è schierati con il cosiddetto “partito del presidente”, nelle cui fila ogni critica espressa alle azioni di Napolitano viene vissuta come un’indebita intromissione.
Questa forzata polarizzazione dello scontro ruota attorno a due quotidiani, noti per il consolidato afflato antiberlusconiano, con il paradossale e ulteriore risultato di costringere tutti gli altri giornali, siano essi di destra o di sinistra, a giocare di rimessa. Un’inutile radicalizzazione delle diverse posizioni che, oltre all’esilarante esito di vedere convergere sulle medesime posizioni personaggi e realtà distanti anni luce, sta creando più danni degli anticicloni africani che imperversano sul nostro territorio in questi settimane.
Se si è firmato l’appello in favore dei giudici, promosso dal Fatto e rilanciato da web e social network, si lavora per ribaltare l’attuale quadro politico, bloccare le riforme “lacrime e sangue” di Mario Monti e giocare allo sfascio, secondo un’altra tradizione italica dura a morire. Si è fautori cioè di quella vituperata antipolitica che ha come scopo quello di azzerare l’attuale quadro dei partiti, in vista di una palingenesi dagli incerti sviluppi.
Se, invece, si critica l’opera degli inquirenti siciliani e si argomentano in punta di diritto – un diritto che spesso finisce per essere “rovesciato”, nella forma e nella sostanza – si diventa di colpo consapevoli insabbiatori delle peggiori nefandezze degli ultimi sessant’anni del nostro Paese, oltre che assolutamente sordi rispetto alla richiesta di verità e giustizia dei tanti familiari delle vittime di mafia e delle stragi impunite di sessant’anni di Repubblica.
Inutile sottolineare che continuando lungo questa china discendente si allontana nel tempo ogni possibilità di fare piena luce su quello che avvenne prima e dopo quell’estate del 1992.
Occorre comunque prendere atto dell’allontanamento tra Quirinale e magistratura, un tempo unite nella difesa dagli attacchi all’autonomia delle toghe: comunque finirà davanti alla Corte Costituzionale ci saranno da raccogliere solo cocci e questo esito non è il massimo, vista anche la difficile congiuntura economica e politica.
Non ci appassiona pertanto il dibattito tra addetti ai lavori, né tantomeno gli schieramenti preconcetti che ottenebrano ogni ragionevolezza. Non ci accodiamo acriticamente ai sostenitori delle idee di Scalfari e neppure a quelli del pensiero di Zagrebelsky: troppo importante è stabilire la verità sulla stagione delle stragi per scegliere di stare da una parte o dall’altra. Rivendichiamo la possibilità di ragionare sui fatti, sui documenti e non per preconcetti. Questo è l’unica forma di schieramento possibile: voler essere dalla parte della verità.
Anche se, per amore di questa stessa verità, occorre sottolineare come certe ricostruzioni fatte da Eugenio Scalfari sulla presunta distinzione tra trattativa e trattativa, e anche sull’atteggiamento tenuto da Giovanni Falcone sui rapporti tra mafia e politica lascino molto, troppo a desiderare. Altri commentatori ben più autorevoli e la sorella del magistrato si sono già incaricati di ristabilire i fatti per quello che realmente sono stati e sono, non aggiungiamo altro.
Fatti e non opinioni, ecco quello di cui abbiamo bisogno.
Ecco perché Libera Informazione ha continuato in questi mesi ha continuato – e continuerà a farlo prossimamente – a cercare di restituire le vicende della trattativa nella loro essenza, non mancando di sottolineare dubbi e contraddizioni.
Non per partito preso – fosse anche un giornale – ma solo per amore di verità.
http://www.liberainformazione.org/news.php?newsid=18206