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Nicolini e Chiarante, due intellettuali venuti alla politica

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Sono scomparsi in questi giorni due intellettuali che sono riusciti a dare molto alla cultura e quindi alla politica, in forme diverse. Renato Nicolini ha fatto irruzione negli anni in cui il terrorismo aveva desertificato le sere e le notti urbane, persino a Roma portandovi gli anticorpi della cultura e dello spettacolo (qualitativo) di massa, con una creatività forte e trasgressiva. Giuseppe (Beppe) Chiarante – che veniva da una solidissima cultura politica ed aveva alle spalle, avendola iniziata da giovane, una lunga esperienza parlamentare fra Camera e Senato – ha vissuto una seconda vita come intellettuale e politico (non più di professione, ad un certo punto) occupandosi in modo competente e incisivo di beni culturali.

A differenza di Renato Nicolini, che nel vasto ambito della metropoli romana, poté con tre sindaci (Argan, Petroselli e Vetere), esplicare in pieno, quale amministratore, la propria vena creativa traducendola soprattutto nelle  Estati romane, Beppe Chiarante non ha potuto dare il proprio importante contributo in modo diretto, come ministro o come sottosegretario, essendogli state preferite dal partito altre figure. Anche se aveva dimostrato di destreggiarsi assai bene alla guida dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli fondata da Giulio Carlo Argan. Evidentemente gli venne fatto pagare  l’inattaccabile spirito di autonomia critica dimostrato con convegni, dibattiti, documenti di denuncia strategici per tanti temi (compresi quelli più negletti, o meno spettacolari, come archivi e biblioteche), pubblicati sempre con grande tempestività.  E che riempiono interi scaffali delle nostre librerie, alcuni autentici manuali.

Beppe Chiarante poté essere, e lo fu a lungo, il vice-presidente esecutivo, quindi, di fatto, il presidente, del Consiglio Nazionale per i beni Culturali, e anche da quel ruolo consultivo, non lesinò certamente critiche severe e fondate ai progetti di riforma predisposti anche da suoi compagni o ex compagni di partito come Veltroni e Melandri. Non era d’accordo sulle Soprintendenze regionali (ingrossate poi a direzioni generali regionali), andate ben al di là dei compiti di mero coordinamento. Non era d’accordo sui Poli museali (che a Roma, dove ogni Galleria ha una propria storia, esso sta agendo da freno e da riduttore di attività) e su altri punti, e lo disse e scrisse senza mezzi termini. Così com’era fortemente polemico con la degenerazione burocratica del Ministero che del resto Argan e lui avevano avversato preferendogli una Agenzia speciale per i Beni culturali.

Quando Berlusconi rivinse le elezioni nel 2001, eravamo stati da pochi mesi nominati insieme nel Consiglio Nazionale per i Beni culturali e lui era stato da noi rieletto alla unanimità (sottolineo) vice-presidente esecutivo del medesimo organismo. Quando Giuliano Urbani diventò titolare del Collegio Romano, con l’esagitato Vittorio Sgarbi sottosegretario, dopo pochi mesi di sgoverno e di polemiche strumentali (mai raccolte da un Chiarante inappuntabile), fummo estromessi e sostituiti: Chiarante, il rappresentante di Legambiente ed io. Lui, a differenza di altri, non trattò nulla per sé, se ne uscì subito con grande dignità tornando al lavoro di studio, di ricerca e di denuncia (nel quale fummo sempre d’accordo) della Bianchi Bandinelli. Mentre il Consiglio Nazionale veniva esautorato da Urbani e nemmeno più convocato, per mesi e mesi.

Tante altre cose si potrebbero dire di questo intellettuale venuto dalla politica, che continuò a farne di molto concreta occupandosi di musei, di biblioteche e di paesaggi, ma senza astratti ideologismi, con fermi principii e con una grande propensione culturale all’unità delle forze che si ispiravano all’articolo 9 della Costituzione. Era ovviamente contrario ad una nozione economicistica, produttivistica della cultura e dei suoi beni, e insieme esprimemmo, come associazioni, tale contrarietà alla responsabile del Partito Democratico, Vittoria Franco, che stava elaborando nel 2006 il programma per la cultura.

Ella rimase palesemente fredda davanti alle idee esposte da Beppe e da me. Ma lui, pur amareggiato, ne trasse motivo per un più intenso impegno, civile e culturale. Ci vedevamo tutti i lunedì ai concerti dell’Accademia di Santa Cecilia di cui era, con Sara, un frequentatore appassionato, anche dopo che un primo ictus l’aveva colpito. Ci mancherà la sua affettuosa presenza, la sua mite risolutezza, il suo concreto stimolo culturale, quel suo fare civile e rigoroso, ci mancherà. Ci manca già molto.


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