L’incredibile storia di Enrico “Chico” Forti

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L’imprenditore italiano di Trento, Enrico Forti detto “Chico”, dopo un processo durato venticinque giorni, il 15 giugno 2000 è stato ritenuto colpevole di omicidio da una giuria popolare della Dade County di Miami, “per aver personalmente e/o con altra persona o persone allo Stato ancora ignote, agendo come istigatore e in compartecipazione, ciascuno per la propria condotta partecipata, e/o in esecuzione di un comune progetto delittuoso, provocato, dolosamente e preordinatamente, la morte di Dale Pike”
La sentenza ha lasciato esterrefatti i presenti e quanti avevano seguito il dibattimento processuale, increduli che una giuria abbia potuto emettere “oltre ogni ragionevole dubbio”, un verdetto di colpevolezza basato soltanto su flebili e confuse prove circostanziali. Successivamente, attente verifiche e valutazioni sulla fondatezza di queste “prove circostanziali”, produssero una tale quantità di dubbi che il sospetto che i fatti siano andati in modo completamente diverso da come sono stati presentati dall’accusa, è divenuto certezza. Valutando meticolosamente una per tutte le accuse basate su fatti ed antefatti, si scoprì una serie infinita di manomissioni delle “prove circostanziali” da parte dell’accusa, con l’unico scopo di ottenere un verdetto di condanna.

GLI ANTEFATTI 
Enrico Forti detto “Chico” nasce a Trento nel 1959 dove vive fino al conseguimento della maturità scientifica nel 1978. In seguito si trasferisce a Bologna per frequentare l’Isef, l’università di educazione fisica. Fisicamente dotato, si dedica alla pratica di parecchi sport, dedicandosi in particolare al “windsurf” e negli anni ’80 ottiene molti successi a livello mondiale. Negli anni ’90 si trasferisce a Miami in Florida, dove intraprende un’attività di film-maker e presentatore televisivo. In seguito si dedica anche ad intermediazioni immobiliari ed è proprio svolgendo questa attività che conosce un personaggio di nome Anthony Pike, che si presenta come proprietario di un omonimo albergo sull’isola di Ibiza, in Spagna. Quest’albergo aveva goduto di una certa notorietà negli anni ’80, frequentato da parecchi personaggi del jet-set internazionale, ma in seguito ebbe un declino fallimentare. Alla fine del 1997, Anthony Pike viaggia alla volta di Miami, ospite di un tedesco di nome Thomas Knott, che da qualche tempo soggiornava a Williams Island, in un appartamento sito proprio sotto l’abitazione di Enrico Forti. I due erano stati “compagnoni” ai tempi dorati dell’albergo di Ibiza, di cui Knott era un assiduo frequentatore. Solo in seguito, a cose fatte, si scopriranno i veri profili di questi due personaggi. In primo luogo, Pike in quel periodo si trovava in estreme difficoltà finanziarie. Knott era un “intrallazzatore” condannato in Germania a sei anni di detenzione per truffe miliardarie, sparito durante un periodo di libertà vigilata e ricomparso a Miami (ospite di altri tedeschi) a Williams Island, dove svolgeva sotto falsi documenti (procuratigli da Pike) un’attività di copertura come “istruttore di tennis”. In realtà continuava la sua “professione” di truffatore (25 accuse in poco più di sei mesi!) e l’ultima fu proprio quella tentata ai danni di Enrico Forti, convocando Anthony Pike a Miami con l’intento di vendere il citato hotel, sebbene non fosse più di sua proprietà da oltre un anno. Durante questa trattativa, compare sulla scena Dale Pike, figlio di Anthony, che in passato era stato allontanato dall’albergo di Ibiza per gravi dissapori con il padre e probabilmente anche con Thomas Knott, suo ex compagno di baldorie. Dale Pike doveva lasciare precipitosamente la Malesia, per motivi non accertati, e ricorse all’aiuto del padre, trovandosi in questo stato di necessità completamente privo di denaro. Anche Anthony Pike non aveva alcuna disponibilità finanziaria, e chiese l’aiuto di Enrico Forti con il quale era entrato in trattative per la compravendita dell’albergo. Forti fu disponibile e alla fine di gennaio 1998 pagò a Dale Pike il biglietto aereo dalla Malesia alla Spagna. Quindici giorni più tardi, Anthony Pike telefonò nuovamente ad Enrico Forti, prospettandogli una sua visita a Miami, questa volta in compagnia del figlio Dale. Il giorno del loro arrivo fu programmato per domenica 15 febbraio 1998. Convinse nuovamente Enrico Forti ad anticipare il denaro per pagare i biglietti aerei ed anche questa volta Forti acconsentì a pagare i biglietti ad ambedue. Alcune e-mail di Dale Pike alla fidanzata Vaike Neeme, una “ragazza copertina”. L’ultima è del 14 febbraio 1998 (il giorno prima della partenza per Miami). In questa lettera Dale si dice ansioso di conoscere Chico, “il nuovo proprietario” dell’hotel di suo padre, che è anche un produttore cinematografico. Scrive “di avere con sé un progetto per fare un film e di volerglielo presentare”. Dale si augurava che Forti lo aiutasse a realizzare questo film. Due giorni prima della partenza, Anthony fece un’ultima telefonata ad Enrico Forti, adducendo problemi personali, spostando il suo appuntamento con lui a New York per il mercoledì successivo 18 febbraio. Suo figlio Dale invece, avrebbe comunque viaggiato a Miami, da solo, la domenica 15 febbraio ed Anthony chiese a Forti di andarlo a prendere all’aeroporto per ospitarlo a casa sua. Forti acconsentì, ma dopo il suo incontro con Dale all’aeroporto, quest’ultimo gli chiese di essere portato al parcheggio di un ristorante a Key Biscayne, dove amici di Knott lo stavano attendendo e avrebbe trascorso alcuni giorni con loro, in attesa dell’arrivo del padre. Forti quindi gli diede un passaggio fino al luogo indicato da Dale e lo lasciò al parcheggio verso le ore 19 di quella domenica. Il suo contatto con Dale Pike, mai visto né frequentato prima di quel giorno, era durato circa una mezzora. Il giorno 16 febbraio un surfista ritrovò il cadavere di Dale Pike in un boschetto che limita una spiaggia a poca distanza dal parcheggio dove Enrico Forti lo aveva lasciato. Era stato “giustiziato” con due colpi di pistola calibro .22 alla nuca, denudato completamente ma con vicino il cartellino verde di cui viene dotato alla dogana chiunque entri negli Stati Uniti. C’erano anche altri oggetti personali per cui fu semplice l’identificazione. La morte fu fatta risalire tra le ore 20 e 22 del giorno precedente, poco tempo dopo il suo commiato da Enrico Forti. Fu provato che Enrico Forti alle ore 20 si trovava all’aeroporto di Fort Lauderdale. Contro ogni regola del diritto internazionale, al processo l’accusa è cambiata tre volte in corso d’opera. All’inizio il Forti era indicato come omicida. Provato inconfutabilmente che non poteva esserlo, la tesi successiva lo indicava come “mandante”. Caduta anche questa ipotesi, l’ultimo tentativo di coinvolgere Enrico Forti nell’omicidio è stato quello di ritenerlo colpevole di essere stato “colui che ha gestito le canne fumanti che hanno eliminato Dale Pike. Su questa ultima assurda teoria è stata pronunciata la condanna

L’INGANNO 
Le accuse mosse contro Enrico Forti si basarono tutte sul fatto che in un primo momento egli tacque sulla circostanza dell’arrivo di Dale Pike domenica 15 febbraio 1998 ed omise la verità sul loro incontro all’aeroporto di Miami. Nei giorni che seguirono i fatti dimostrarono come Enrico Forti non fosse stato affatto preoccupato della sorte di Dale Pike. Fu soltanto mercoledì 18 a New York, dove si era recato per l’incontro con il padre, che apprese la notizia dell’omicidio. Saltato l’appuntamento con Anthony Pike e non avendo più sue notizie, Forti tornò immediatamente a Miami ed il giorno seguente, 19 febbraio, si recò spontaneamente al dipartimento di polizia, per rispondere ad una convocazione come persona informata dei fatti. Fu durante questa convocazione – che si rivelò poi un vero e proprio interrogatorio come maggior indiziato per l’omicidio – che la polizia lo informò falsamente che oltre a Dale, anche il padre Anthony era stato trovato ucciso a New York. Anthony Pike invece, era vivo e vegeto e sotto protezione della polizia stessa dal giorno precedente. Terrorizzato dal precipitare degli avvenimenti, Forti negò di aver incontrato Dale Pike. La sera del 20 febbraio, senza rendersi conto della gravità della situazione, tornò alla polizia per consegnare una serie di documenti relativi al rapporto d’affari con il padre della vittima. Ingenuamente, si presentò senza l’assistenza di un legale, anche per il consiglio di un ex capo della squadra omicidi da lui conosciuto, che lo aveva assicurato trattarsi solamente di dare alcuni chiarimenti per aiutare le indagini della polizia. Invece in quell’occasione venne immediatamente arrestato e sottoposto ad un massacrante interrogatorio per 14 ore, durante il quale ammise di aver incontrato Dale Pike il 15 febbraio nelle ore precedenti il suo omicidio e di averlo accompagnato al parcheggio del ristorante Rusty Pelican a Virginia Key. Questa ammissione fu il risultato di una vera e propria trappola, tesagli per mandarlo in totale confusione soggiogato dalla paura e dalla disperazione. Una tecnica forse legittima ed ammissibile, secondo il sistema americano, ma ottenuta proditoriamente con l’inganno

LE INVENZIONI DELL’ACCUSA 
Nell’immediatezza del primo arresto, Enrico Forti era stato accusato di frode, circonvenzione d’incapace e concorso in omicidio. La giuria però fu fuorviata ed ingannata nel suo giudizio finale perché non venne mai informata che Enrico Forti in precedenza era già stato completamente prosciolto dalle accuse di frode e circonvenzione d’incapace. Liberato su cauzione, nei venti mesi che seguirono, era stato infatti scagionato dai tutti i capi d’accusa (otto) che riguardavano la frode. La stessa giudice che lo aveva prosciolto dalle accuse di frode, cambiò inspiegabilmente idea e scorrettamente la truffa fu usata come movente nel processo per omicidio. Riportiamo la traduzione letterale del testo introduttivo della teoria dello stato sulla quale il PM ha fondato le sue accuse. “La teoria dello Stato sul caso era che Enrico Forti avesse fatto uccidere Dale Pike perché Forti sapeva che Dale avrebbe interferito con i piani di Forti per acquisire dal padre demente, in modo fraudolento, il 100% di interesse di un hotel di Ibiza. Dale aveva viaggiato verso Miami dall’isola di Ibiza in modo che Forti avrebbe potuto “mostrargli il denaro” – quattro milioni di dollari richiesti per la transazione – per l’acquisto dell’albergo di suo padre. Forti semplicemente non lo aveva. Invece, Forti incontrò Dale all’aeroporto e lo condusse alla morte”. Non c’è una sola parola di verità in queste affermazioni. Non è vero che Dale Pike, la vittima, costituiva un ostacolo per i piani di Forti di acquistare l’albergo. Non ne aveva alcun potere. Non è vero che il padre, l’albergatore Tony Pike, era un vecchio malato e disabile, incapace di intendere e volere. Tutt’altro. A suo tempo, molte testimonianze lo consideravano un astuto e sveglio uomo d’affari. D’altronde al processo non è stato presentato alcun documento che comprovasse la sua presunta demenza, né da parte di un tribunale, né di una qualsiasi commissione medica. Non è vero che Enrico Forti volesse appropriarsi in maniera fraudolenta del 100% dell’hotel. Anzi si è scoperto che l’albergatore tentava di vendere al Forti un hotel che da molto tempo non era più suo. Una truffa vera e propria. Anthony Pike stesso lo aveva ammesso in una deposizione rilasciata a Londra prima del processo, dicendo chiaramente che intendeva rifilare a Chico un “elefante bianco”. Ma l’accusatore e inspiegabilmente anche il difensore, l’hanno tenuto nascosto alla giuria. Non è vero che Dale aveva viaggiato a Miami “per vedere il denaro contante”, quattrocinque milioni di dollari, che il Forti avrebbe dovuto pagare. L’accordo di compravendita prevedeva il pagamento nell’arco di tempo di sei mesi (con scadenza il 30 giugno), parte in contanti, parte in permuta di due appartamenti e parte con l’assunzione dei debiti dell’albergo con le banche. Non c’era quindi alcuna urgenza per “vedere i contanti”. La supervalutazione di quattro-cinque milioni di dollari del valore dell’albergo è una stima del tutto inventata. A tutt’oggi il suo valore reale è notevolmente inferiore. Come si vede, alla base di tutte le accuse viene evidenziato il movente della truffa. Invece è vero esattamente il contrario. L’albergatore tentava di vendere un albergo che da molto tempo non era più di sua proprietà. Quindi Enrico Forti era il truffato e non il truffatore ed il movente era completamente inventato ed inesistente.

L’ARRINGA DELL’ACCUSA 
Giovedì, 15 giugno 2000, mezzogiorno circa. Il pubblico ministero Reid Rubin ha appena terminato la sua sommatoria, guardando la giuria come se avesse presentato il suo “masterpiece”, un’opera d’arte. E di un’opera d’arte si è trattato effettivamente, dal momento che è riuscito a costruire e portare avanti un processo senza alcun sostegno probatorio per avallare le sue accuse. Certo Rubin non ha lasciato nulla all’improvvisazione, visto che ha impiegato ben ventotto mesi per preparare la sua arringa finale. Un record per i tribunali americani, visto che normalmente qualsiasi processo si è sempre esaurito entro sei mesi dalla sua istruttoria. Certamente, questo enorme impiego di tempo e di denaro (dello Stato della Florida) deve aver significato molto per la sua carriera o per gli interessi del palazzo, se è riuscito ad ottenere facilmente una serie di rinvii, fino al completamento di questo suo capolavoro. Indubbiamente, l’artista Reid Rubin ha avuto molti punti di favore per giungere alle sue conclusioni. Innanzitutto ha avuto l’incredibile vantaggio di pronunciare la sua arringa senza che la difesa potesse replicare, in modo che qualsiasi teoria lui intendesse proporre alla giuria, vera o presunta, basandosi esclusivamente su una fantasiosa ricostruzione dei fatti, non era più contestabile. Tutto si può dire quando non si corre alcun rischio di essere smentiti! Ma come è possibile che in un processo dove è in gioco la vita di una persona l’ultima parola competa all’accusa? Semplice: il rito del processo americano prevede che l’ultima parola spetti di diritto all’accusa quando l’imputato si è avvalso della facoltà di non rispondere oppure non è chiamato al banco dei testimoni. Ma chi era al corrente di questa regola? Sicuramente non Enrico Forti! Lo sapeva ovviamente il pubblico ministero, che ha sfruttato questa opportunità puntando tutte le sue “chances” proprio nello spazio finale a lui concesso, approfittando anche del fatto che la giuria deve decidere il suo verdetto basandosi esclusivamente sulla propria memoria del dibattimento. Logico quindi che nella mente dei giurati rimangano impresse più le ultime parole dell’accusa che non quelle della difesa. A maggior ragione questo si verifica quando l’oratore è particolarmente bravo e non c’è dubbio che Reid Rubin lo sia. Ma la responsabilità più grave della faccenda ricade sugli avvocati della difesa: anche loro conoscevano questa regola. E allora è normale chiedersi: ma perché concedere questo enorme vantaggio all’accusa e non si è provveduto ad evitare questa trappola per tempo? Disarmante la spiegazione data dai legali nel consigliare Enrico Forti di non presentarsi alla sbarra: “Tu hai detto una bugia, quindi sei esposto al massacro di immagine che l’accusatore può dare di te ai giurati. Quindi meglio non rischiare. Inoltre, non essendoci prove, nessuna giuria al mondo potrà emettere un verdetto di colpevolezza nei tuoi confronti!”. Naturalmente, anche l’accusatore se ne è guardato bene dal chiamare Enrico Forti alla sbarra! Il suo disegno accusatorio era proprio fondato su questa possibilità: avere l’ultima parola per convincere una giuria che, come succede nella maggioranza dei casi, può anche essere stata non molto attenta durante il dibattimento. Tardivamente, durante l’arringa del pubblico ministero, la difesa ha sollevato un’infinità di obiezioni, molte rifiutate, alcune accettate, ma con uguale effetto. Il giudice, in quasi tutte le occasioni, ha invitato gli avvocati a sollevarle in appello, quell’appello che poi sarebbe stato sistematicamente rifiutato.

IL VERDETTO
Dopo la conclusione dell’arringa dell’accusa, la giuria popolare si è ritirata nella camera di consiglio. Giovedì 15 giugno 2000, ore 16 circa. Solo poche ore sono bastate ai giurati per emettere un verdetto di colpevolezza. Incredibile ed incomprensibile la decisione della Corte nel suo pronunciamento della abnorme pena inflitta, che riportiamo nella traduzione letterale: “La Corte non ha le prove che lei sig. Forti abbia premuto materialmente il grilletto, ma ho la sensazione, al di là di ogni dubbio, che lei sia stato l’istigatore del delitto. I suoi complici non sono stati trovati ma lo saranno un giorno e seguiranno il suo destino. Portate quest’uomo al penitenziario di Stato. Lo condanno all’ergastolo senza condizionale”! La morte civile inflitta ad Enrico Forti in definitiva si basa solamente su una “sensazione”! In seguito, nonostante si fosse in grado di dimostrare ampiamente che Enrico Forti era rimasto vittima di un clamoroso errore giudiziario, cinque appelli posti per la revisione del processo sono stati tutti rifiutati sistematicamente dalle varie Corti, senza motivazione né opinione.

I DIRITTI NEGATI E LE REGOLE VIOLATE 
Ad Enrico Forti è stato negato il diritto allo Speed Trial (processo veloce entro 20 giorni dall’arresto) per avvenuta scadenza dei termini di legge (6 mesi) dalla prima accusa all’arresto (20 mesi). Il diritto allo Speed Trial gli è stato negato perché applicata la Regola Williams, cioè l’esistenza di una diretta connessione tra l’ottenimento di un illecito guadagno (truffa) e la consumazione dell’omicidio. Questa regola avrebbe dovuto essere revocata perché Enrico Forti era già stato assolto dall’accusa di frode in un precedente processo. La deposizione rilasciata da Enrico Forti come testimone, durante la quale ha detto la bugia sul suo incontro con Dale Pike, avrebbe dovuto essere annullata perché coperta dai Diritti Miranda che prevedono l’assistenza di un legale durante qualsiasi deposizione rilasciata da una persona ufficialmente accusata di un crimine. Questi diritti gli furono negati anche se al momento di questa deposizione, era già il principale indiziato per l’omicidio. L’accusatore ha anche scorrettamente ignorato un accordo pre-processuale tra le parti, detto in limine, secondo il quale la truffa non avrebbe dovuto essere usata come movente La giuria così fu intenzionalmente fuorviata nel suo giudizio finale. In questo modo si è violata anche la regola Double Jeopardy secondo la quale, se un imputato è già stato assolto da un’accusa in un precedente processo, la stessa accusa non può essere usata in un altro processo. Ad Enrico Forti furono negati anche i diritti previsti dalla Convenzione di Vienna. I Paesi firmatari di questa convenzione, garantiscono l’immediata assistenza legale in caso di arresto di un loro cittadino in uno Stato diverso dal proprio. E’ prevista anche l’automatica simultanea comunicazione alle autorità consolari locali del cittadino stesso. Il Consolato Italiano venne a conoscenza del primo arresto di Enrico Forti casualmente dai giornali nove giorni dopo. Alla protesta ufficiale che ne seguì, la polizia inviò una lettera di scuse per “l’involontaria” omissione.

IL CONFLITTO D’INTERESSI 
Dopo il rifiuto per la revisione del processo del 30 aprile 2002 (appello gestito dagli stessi avvocati del processo), si scoprì casualmente un fatto incredibile: Ira Loewy, principale avvocato della difesa di Enrico Forti, contemporaneamente all’incarico di difensore, lavorava anche come sostituto procuratore per lo Stato in un altro processo. Quindi un chiaro conflitto d’interessi diretto! Richieste spiegazioni per questo duplice lavoro, l’avvocato Ira Loewy dichiarò di esserne stato autorizzato dallo stesso Forti. A supporto delle sue affermazioni esibiva a sorpresa (e solo molti mesi dopo) la fotocopia di un documento che attestava tale autorizzazione, peraltro senza data né timbro del tribunale. Però Enrico Forti asserisce con estrema sicurezza di non essere mai stato a conoscenza di questo fatto, di non aver mai visto quel documento e che la firma in calce (cosa grave) non è la sua. Anche i suoi familiare d’altronde, che si occupavano dei contatti e dei pagamenti delle parcelle, non furono mai messi al corrente di questa storia. Comunque sia, c’è una certezza inconfutabile: non è mai stato presentato l’originale di quel documento e nessuna udienza fu mai tenuta davanti al giudice per allegare quel documento agli atti del processo. A onor del vero un’udienza è stata tenuta a questo proposito poiché la giudice Platzer, a conoscenza del fatto, impose ai difensori di legalizzare la registrazione agli atti del processo del documento con la presenza e la firma del “cliente” Enrico Forti. In realtà non si fece mai. Il pubblico ministero Reid Rubin inserì ufficialmente nella sua mozione la fotocopia di questo documento, avvalorandone l’autenticità (Exhibit “E“). L’originale era andato inspiegabilmente perduto! Paradossalmente al processo si verificò una situazione strana: più che uno scontro tra difensore ed accusatore, apparentemente ognuno a sostegno della propria tesi, fu un confronto tra due “colleghi”. Tuttavia il grave problema del conflitto d’interessi diretto, presentato successivamente in una petizione alla Corte da un nuovo studio legale (“post-conviction petition” – 19 ottobre 2006), è stato rigettato dal giudice Dennis Murphy senza discussione. *** Reid Rubin sapeva benissimo del conflitto di interessi dell’avvocato Ira Loewy nel processo contro Forti e lo dimostra l’udienza tenuta il 29 marzo 2000 (si può rilevare dall’allegato “F” della Risposta dello Stato del 12 dicembre 2005). Tre anni dopo, quando l’inghippo venne casualmente scoperto da Forti, Loewy, come un prestigiatore, estrasse dal cilindro (computer di casa) la fotocopia di un documento, firmato dallo stesso Forti, che gli dava l’autorizzazione al “doppio lavoro”. E’ importante notare che l’udienza del 29 marzo 2000 venne tenuta nascosta a Enrico Forti. Erano presenti soltanto l’avv. Loewy, il p.m. Rubin e la giudice Platzer. In quell’occasione la giudice richiamò l’avvocato sul grave problema del conflitto, invitandolo a portare il suo assistito in Corte per l’accettazione ufficiale della doppia mansione perché era obbligatorio allegare il documento agli atti del processo. L’avvocato assicurò che questo sarebbe avvenuto non appena il carcere ne avesse dato la possibilità, dal momento che in quel periodo non era possibile perché era in quarantena a causa della varicella. Il p.m. Rubin garantì che avrebbe ricordato all’avv. Loewy questo impegno prima dell’inizio del processo. Invece non ci fu mai una seconda udienza a questo proposito, l’autorizzazione non venne registrata agli atti del processo e la prima udienza venne sigillata dalla Corte. Reid Rubin sapeva anche perfettamente che il documento presentato da Ira Loewy (vedi allegato “E” della stessa Risposta dello Stato del 12 dicembre 2005) non era stato allegato agli atti del processo e nessuno aveva mai visto l’originale, che non si è mai trovato presso gli archivi del tribunale. Ma se l’originale era andato “smarrito” da dove si è rilevata la fotocopia? Tuttavia Rubin ha convalidato questo documento (che Enrico Forti sostiene di non aver mai visto, né tanto meno discusso; anzi che la sua firma in calce è assolutamente falsa), scrivendo testualmente nel relief di post-condanna, che si trattava “di una falsa dichiarazione fabbricata dal Forti nel disperato tentativo di favorire i suoi personali interessi” e che comunque “anche se di questo documento non si trovasse l’originale, ciò non sarebbe sufficiente per concedere la revisione del processo”.

LE ANOMALIE CHE HANNO SEGNATO IL DESTINO DI CHICO FORTI 
La situazione finora non ha subito alcuna modifica. Ora la criminologa Roberta Bruzzone si è interessata al caso e dopo due anni e mezzo di ricerche, ha redatto una relazione, corredata da centinaia di documenti a comprova, da portare sul tavolo del Ministro degli Esteri per dimostrare le clamorose irregolarità del processo. Ormai è chiaro che solo con il supporto della Farnesina si possono far valere pesantemente negli Stati Uniti le ragioni di Chico Forti. Le prove di innocenza? Sono infinite e indiscutibili. Roberta Bruzzone ne è molto convinta: “Ci sono elementi oggettivi che mostrano la violazione dei diritti dell’imputato e, spiace dirlo, tale fatto è imputabile alla difesa che ha intrapreso strategie suicide per non far interrogare Chico davanti ai giudici e quindi ha subito una terribile condanna senza essere efficacemente difeso”. Inoltre nessuno poi ha mai avvisato Forti – chiarisce la criminologa – che il suo avvocato difensore, contemporaneamente alla sua difesa, lavorava anche come accusatore nella Procura di Miami. Per la legge americana si tratta di un gravissimo conflitto d’interessi, che da solo potrebbe far invalidare il processo”.

IL COMMENTO SULLA VICENDA 
Il desiderio di Chico Forti di fare luce su un caso come quello della morte di Gianni Versace e del suo presunto assassino Andrew Cunanan, la cui rappresentazione dei fatti era stata volutamente presentata all’opinione pubblica in maniera distorta, secondo accordi raggiunti ai vertici della Polizia di Miami, dell’FBI e forse da qualche altro… L’aver mentito quando per la prima volta è stato ascoltato dai poliziotti sul suo incontro con la vittima Dale Pike in aeroporto. Una menzogna scaturita dalla paura generata dall’anomalo atteggiamento dei poliziotti che hanno fatto sentire il Forti non più un testimone con la volontà di aiutare, ma un inquisito vero e proprio al quale non hanno permesso di essere assistito da un avvocato. A nulla è servito che Chico Forti abbia ritrattato il tutto nelle 24 ore successive, come permette la legge USA. Della sua bugia alla polizia il “prosecutor”, infischiandosene delle regole che impedivano di usare la menzogna come articolazione della sua arringa, ne ha fatto il suo cavallo di battaglia per presentare Chico Forti come un delinquente che “ha mentito” riguardo all’aver visto una persona, perché “sapeva” della fine che la stessa aveva già fatto… Tutte “sensazioni” dell’accusa, nessuna “prova” ma, riconoscendo l’assoluta estraneità di Forti nell’aver commesso materialmente il crimine, Reid Rubin ha creduto che l’italiano potesse essere stato il “mandante”, pur senza provare questa tesi. Crediamo che mai nella giurisprudenza degli Stati Uniti ci sia stato il caso di una persona condannata all’ergastolo senza lo stralcio di una prova a suo carico e soprattutto senza che il vero omicida sia mai stato neanche cercato! L’accusa, che aveva chiesto inizialmente per Chico Forti la pena di morte, constatando la mancanza di prove (necessarie per la pena capitale), ha abilmente optato per l’applicazione di una vecchia legge, assurda ed oramai non applicata più da quasi nessuno degli Stati americani: la cosiddetta “ Principle Rule”. Secondo questa legge, se più persone vengono riconosciute di aver partecipato in qualche modo alla commissione di un reato, anche se in realtà materialmente non hanno fatto niente, a tutti viene applicata la stessa pena del “principale”, anche se il responsabile è uno solo. In poche parole, se tre amici si fermano in macchina in una stazione di servizio ed uno mette la benzina, uno va in bagno e l’altro violenta la cassiera e l’ammazza, senza che gli altri sappiano nulla delle sue intenzioni, tutti e tre vengono condannati alla pena di morte o all’ergastolo… Assurdo? La famosa frase tanto assurda pronunciata dall’accusatore Reid Rubin: “Lo Stato non deve provare che egli sia l’assassino al fine di dimostrare che sia lui il colpevole“, ha ora senso alla luce di questa legge. Chico Forti è colpevole anche senza la necessità che lo Stato provi che sia l’assassino perché lo Stato ha presunto che lui fosse in qualche modo coinvolto. Ma come? Ce lo spiega lo stesso prosecutor Reid Rubin affermando di avere la sensazione che “al momento in cui Chico Forti ha lasciato Dale Pike al parcheggio di un ristorante sapeva, o avrebbe dovuto sapere, o avrebbe dovuto sospettare che al povero Dale sarebbe successo qualcosa di brutto!”. Sembra incredibile ma è proprio la verità: Chico Forti e’ stato condannato all’ergastolo solo perché il prosecutor ha individuato in lui una sorta di “preoccupazione” sul destino di Dale, dopo averlo lasciato in quel parcheggio. Praticamente perché “sapeva che qualcosa sarebbe successo”. Rubin chiede pertanto la condanna all’ergastolo, la stessa pena che avrebbe richiesto per l’omicida, cioè per colui che non si è mai conosciuto. Quell’assassino che ha violentemente ucciso Dale Pike con due precisi colpi a bruciapelo alla nuca sul bagnasciuga di una spiaggia deserta, che lo ha picchiato, denudato e trascinato in un’area piena di rifiuti, lasciando accanto a una mano la carta d’ingresso negli USA, il biglietto aereo, una carta telefonica, in modo che la vittima fosse facilmente e immediatamente riconoscibile e che i sospetti arrivassero proprio a Chico Forti che tutti sapevano sarebbe andato a prenderlo in aeroporto. Si ha ragione di credere che l’omicida non sia mai stato cercato, neanche in fase istruttoria perché l’unico sospettato insieme a Chico Forti è stato il tedesco Thomas Knott, la sola persona che aveva forti motivi per essere interessato alla sparizione di Dale. Ma Knott aveva già fatto un patto con il prosecutor (Plea Agreement) con il quale si è accusato del reato minore di truffa ai danni del padre di Dale Pike ed è stato quindi estromesso dal giudizio sull’omicidio senza che gli avvocati della difesa o il giudice si opponessero. Al povero Chico Forti l’assurda condanna non è bastata come smacco, perché nel sistema americano ci sono degli appelli e dei ricorsi, ma hanno una funzione ben diversa dal nostro appello che, come abbiamo visto nel caso di Amanda Knox, è un vero e proprio nuovo processo. L’appello negli Usa è usato per mettere in rilievo l’inefficienza della difesa ed eventuali errori procedurali. Nel caso di Chico Forti un errore madornale fu commesso per inesperienza e per mancanza di corretto consiglio: l’appello fu affidato agli stessi avvocati (tra i più costosi di Miami) che lo avevano difeso malamente in primo grado, con la convinzione che la loro conoscenza del caso avrebbe accelerato i tempi dell’iter… In realtà, ragionando a sangue freddo, è illogico pensare che gli avvocati della difesa si dessero la zappa sui piedi mettendo in evidenza la loro inefficienza. Pertanto l’appello è stato sì concesso, ma la Corte che lo ha esaminato, rifiutandolo, non ha dato neanche una opinione (motivazione) alla sentenza. Senza motivazione non si può ottenere un ricorso alla Corte Suprema. Su consiglio del Consolato Italiano a Miami, furono contattati nuovi avvocati. Questi ultimi hanno presentato l’istanza di “Post Conviction Petition” che è stata però respinta in più riprese durante gli oltre quattro anni trascorsi dalla presentazione (dopo un infinità di rinvii ingiustificati), senza alcuna spiegazione per la decisione presa. In seguito, gli stessi avvocati hanno presentato la “Habeas Corpus”, una formula giuridica a cui si può ricorrere nel caso in cui si possa dimostrare, con fatti nuovi non presentati in giudizio, che esistono tutti i presupposti forensi per ribaltare la sentenza… Questa nuova azione presentava diversi elementi di sicura discussione sulla validità della sentenza di primo grado, ma dal nulla venne fuori, come per magia (o pianificata interferenza) un magistrato (non interessato direttamente al caso), che affermò di aver notato che l’istanza “Habeas Corpus”, pur avendo elementi molto validi, era viziata da un grande difetto di forma: era stata presentata con 20 giorni di ritardo! Pertanto, dietro questo commento “disinteressato” di un magistrato di passaggio, la Corte ha rifiutato l’istanza di Chico Forti per essere stata presentata “ fuori tempo massimo”… Ci si chiede se è solo una sfortuna maledetta che perseguita costantemente il Forti oppure se possa trattarsi di una “forza umana” sempre presente nel District Attorney Office di Miami, che sotto pressioni occulte blocca ogni tentativo di Chico per far riconoscere l’errore commesso nei suoi confronti e che lo ha condannato all’ergastolo senza alcuna prova oggettiva. Viene anche da chiedersi: “Ma gli avvocati americani non conoscevano i termini previsti dalla legge?”. La realtà è che lo State Attorney, il prosecutor, il giudice e altri personaggi presenti e responsabili della condanna di Chico Forti, sono ancora in carica dopo dodici anni e ovviamente non c’è alcun interesse da parte loro nel riesumare questo processo che potrebbe comportare il rischio di umiliare i troppi personaggi che hanno giocato veramente sporco. In caso di riconoscimento dell’innocenza di Chico Forti, lo Stato potrebbe trovarsi nella condizione di dover affrontare un risarcimento enorme per aver rovinato la vita di un uomo e di tutta la sua famiglia. Lo Stato della Florida quindi farà sempre di tutto per evitare il pagamento ai danni dei “Tax Payers”. Un italiano che fa sborsare milioni ai contribuenti? @o way! Non sia mai, dicono gli americani! Molto probabilmente, invece, i contribuenti italiani pagheranno senza fiatare l’errore dei giudici e risarciranno un altissimo prezzo per la ingiusta detenzione di Amanda Knox.


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