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La Siria invisibile della Rai e l’incubo sequestri dell’Aise

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Le guerre viste da lontano. Ascolto cronache concitate ma necessariamente confuse dai confini sicuri oltre cui la guerra vera si combatte. Cronache dei sentito dire, del sembra, si dice, e non è certo colpa del reporter. Di fatto un gran lavoro sulle agenzie di stampa internazionali che raccolgono messaggi twitter o filmati confusi che filtrano oltre la censura anche cibernetica del regime di Assad. Mezze verità, mezze bugie, governativi addestrati alla disinformazia ex sovietica di addestramento russo, e le diverse bande di ribelli che scambiano simpatie e ipotetico futuro sostegno in cambio di armi un po’ dalla Cia, un po’ dei regimi feudali arabi del petrolio, un po’ dalla sharia islamica figlia dell’accorta parcellizzazione della vecchia Al Qaeda. Un bordello dove anche il più semplice e troppo spesso praticato giochino dei buoni e dei cattivi richiede prudenza di affermazioni e profonda conoscenza. Virtù in forte contraddizione col giornalismo estero italiano, quello radio televisivo in particolare, esercitato in contenitori editoriali fatti per il consumo politico-emotivo di casa. Tg costipati sugli esteri, Tg interdetti ai non di casa, Tg in vacanza di ascolti.

E Damasco resta vietata. Almeno per la Rai, così mi raccontano vecchi colleghi. Peccato: avrei un sacco di nomi e di numeri di telefono da fornirvi. Ad esempio quello di un ottimo taxista disposto a tutto, anche se platealmente gay (portava il cavalletto a Miki ancheggiando vezzosamente), o quello di una favolosa (e attraente) operatrice umanitaria di origini armene che quel mondo tra Siria e Libano lo vive dalla sua infanzia. L’importante è non chiederle di andare in Turchia. Oppure, senza visto e senza voler superare da clandestini i confini colabrodo tra Turchia e Siria, andare almeno ad Antakya, la evangelica Antiochia. Lì garantisco il sostegno di padre Domenico, francescano cazzuto, ecumenico e informatissimo. Tutto attorno sareste nel cuore, nell’avamposto di tutte le trame spionistico strategiche occidentali a favore dei ribelli a telecomando. Siamo in Turchia quindi  entro i confini di un solido paese Nato. Manco il rischio di uno scomodo rapimento che fa rizzare i capelli che restano a qualche vertice Aise soltanto a sentirne parlare. Non ve lo consentono per colpa della Farnesina? Unità di crisi? Mi vien da ridere. Da un mio vecchio taccuino una lettera.

Cercasi direttore con palle. Situazione un po’ datata, guerra in Bosnia, e al Tg1 direttore Carlo Rossella, più o meno nel 1994-95. «Caro direttore, giunto stamane a Split (Spalato) ho trovato il tuo messaggio con la comunicazione della Direzione del personale che “esprime parere negativo alla trasferta a Sarajevo”. Lo stupore e l’incredulità prevalgono quasi sulla indignazione. Alcune considerazioni che ti rivolgo nella tua funzione di UNICO responsabile delle scelte giornalistiche per il Tg1 (articolo 6, Cnl). 1). Se la Rai è ancora una azienda che produce -tra l’altro- informazione, sarebbe utile che tutti i suoi livelli di comando si impadronissero del concetto giornalistico base secondo cui è proprio la drammaticità e spesso la pericolosità di una situazione ad imporre l’attenzione e la presenza giornalistica, tanto più se si ha il mandato di “Servizio pubblico”. 2) Non colgo la differenza fra Sarajevo oggi e la situazione affrontata non più di 20 giorni fa a Pale dove, unico giornalista italiano presente, ha documentato per il Tg1 la crisi degli ostaggi Onu usati come scudi umani sugli obiettivi militari, nonostante la possibilità non remota di andare a raggiungerli».

E’ il giornalismo, bellezza. «3). In otto pagine di relazione che certamente nessuno s’è preso la briga di leggere, inviate non più di 7 giorni fa, elencavo nel dettaglio le molte problematiche delle missioni in zona di guerra, e le svariate inadeguatezze aziendali, seguite da proposte concrete di soluzione. 4). L’azienda, una sua parte, ancora una volta mostra di basarsi sulle impressioni esterne, senza ritenere di dare ascolto, utilizzare quel patrimonio di esperienze e conoscenze che noi, Inviati sul campo, ci siamo fatti a così alto prezzo sia qui in Bosnia, sia in Somalia. 5). Insomma, non si interviene per migliorare la situazione tecnico-organizzativa della sicurezza del personale Rai in zona di guerra, si lascia morire il cosiddetto “Comitato di crisi”, salvo poi farsi vivi per “Vietare”. Infine, caro direttore, l’indignazione per quel capoverso della comunicazione aziendale, “… ogni responsabilità riguardante l’incolumità e la sicurezza dei partecipanti dovrebbe essere assunta direttamente dagli interessati e dalla testata”. E’ immaginabile porre a chi lavora sul campo con consapevolezza dei rischi ma anche dei doveri, un simile atto di irresponsabilità aziendale?».

Il più elegante Vaffa della storia. La conclusione scivola in alcuni passaggi -ammetto- sul patetico. Ma se vuoi colpire un burocrate sotto la cintura, vai sempre sui sentimenti. «Saremmo io e Maurizi, oltre che te, a dover manlevare la Rai per la nostra “folle voglia” di andare a Sarajevo? Sia io che Maurizi abbiamo paura di andare a Sarajevo. Sappiamo meglio di tanti altri i rischi veri che corriamo. Ma appunto perché li conosciamo, perché abbiamo paura, perché siamo dei professionisti, sappiamo anche di poterci tutelare adeguatamente e di poter garantire quella informazione dal posto che qualifica la Rai e aiuta i disperati di Sarajevo. Per la mia dignità professionale, per i miei 25 anni di giornalismo “di strada”, per la mia responsabilità di padre e infine per il mio ruolo di rappresentante sindacale, respingo l’assurda richiesta dell’Ufficio del personale». Credo che se esiste ancora in qualche archivio, quel documento scritto a mano su un taccuino da reporter, sia il più elegante vaffanculo di tutta la storia burocratica della Rai. Ovviamente andammo a Sarajevo senza attendere risposta, ovviamente facemmo il nostro lavoro, ovviamente non facemmo mai carriera.

La Siria e il nuovo rischio ostaggi. Certamente la situazione dei nuovi conflitti è molto cambiata rispetto a 20 anni fa. Uno dei pericoli più temuti sul fronte della politica, ben oltre all’eventuale uccisione che si esaurisce i qualche giorno di cordoglio o di recriminazioni -scusate il cinismo- è il rischio di un sequestro. Settimane, mesi di trattative occulte e caotiche, il rischio di pesanti riscatti, e la palude delle fazioni politiche o tribali con cui doversi rapportare. La Farnesina a mettere il pennacchio diplomatico a dichiarazioni inutili e il lavoro sporco e segreto, ovviamente ai Servizi segreti. Talmente segreti e indaffarati da dover rincorrere e salvare, in meno di due mesi, almeno cinque sequestrati. A volte eroi (la Urru), a volte avventurieri, a volte un po’ cretini. L’ultima vicenda siriana dei tecnici Ansaldo, a naso, somiglia a quest’ultima categoria. Un eventuale giornalista italiano nella mani di qualche fazione siriana vicina ad al Qaeda sarebbe il sogno di ogni capo tribù locale, e l’incubo di qualche vecchio amico che immagino lavori ancora per lo Stato facendo finta di niente. Ma i divieti gerarchici, scusate, non sono tollerabili. E neppure sono diritto di alcuno, Rai o Farnesina che sia. Ognuno faccia il suo. Magari meglio che nel recente passato.


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