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Ilva, la banale ripetizione di un’ipocrisia

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Ciò che maggiormente colpisce del modo con cui viene commentata la tragedia di Taranto è la banale ripetizione di una ipocrisia. Da Napolitano a Ratzinger, dai columnist della stampa main stream ai sindacalisti confederali, per non parlare dei politici, la perorazione è sempre la stessa… bisogna conciliare lavoro e salute, bisogna compatibilizzare le ragioni della produzione e quelle dell’ambiente, bisogna trovare un compromesso tra la necessità di generare denaro per far sopravvivere l’economia e l’obbligo di garantire una condizione di vita decente ai lavoratori e agli abitanti.

A prima vista sembra un’operazione di buon senso. Anche a sinistra si dice: ci sono due “diritti” costituzionalmente riconosciuti da contemplare: occupazione e salute. Ma questo modo di pensare contiene una colossale mistificazione. Lavoro e salute, infatti, non sono due valori equivalenti. Tra loro esiste una gerarchia che va riconosciuta e rispettata. E poi, dove sta scritto che sia inevitabile compromettere l’ambiente  e la salute per produrre gli oggetti che ci servono? Non è nell’ordine naturale delle cose dover mettere a rischio la vita per procurarsi un reddito. Se ciò accade – come accade a Taranto e, a scale diverse, ovunque –  è a causa di un  determinato dispositivo economico e sociale che si chiama crescita.

Scrive Alberto Asor Rosa (il manifesto del 5 agosto): “Nel suo per ora inarrestabile processo di sviluppo, il grande capitale si è impadronito di quote di settori sempre più vasti del nostro essere qui su questa terra (…) Ciò è vero fin dall’inizio del gigantesco ciclo: si potrebbe dire anzi che la modalità espansiva del capitale (industriale, ma per certi versi anche quello finanziario) non prevede limiti all’impossessamento di tutto ciò che nel mondo vivente e inanimato ne rappresenta alternativamente o un’occasione da afferrare o un ostacolo da rimuovere”.

E’ una vecchia questione di principio. Un tempo (prima delle stagioni di lotta per la dignità della condizione operaia alla fine degli anni ’60 del secolo scorso) la “nocività” in fabbrica veniva contrattata dai sindacati aziendali nelle grandi imprese. In molti casi era monetizzata in “premi” o in riduzioni di orario o in altri modi (ricordo che in alcuni reparti del Petrolchimico di Porto Marghera veniva pagata una settimana di soggiorno in una specie di sanatorio). Poi qualcuno disse che “la salute non si vende” e che i famigerati MAC (i limiti massimi ammissibili) per le sostanze cancerogene avrebbero dovuto semplicemente essere uguali a zero. In pratica, qualche Consiglio di fabbrica e qualche associazione come Medicina Democratica ebbero la forza di affermare che la salute è un bene non disponibile e che le ragioni della produttività non avrebbero potuto considerare il lavoro umano come una risorsa sacrificabile. Spetta alle scienze economiche e sociali trovare i modi e le forme  con cui creare le necessarie ricchezze monetarie senza intaccare i sistemi biologici, senza compromettere le vite dei lavoratori dentro e fuori le fabbriche.

Grazie a questa impostazione molti passi avanti sono stati fatti, ma non dappertutto e non in modo irreversibile. La crisi economica è ora giocata come un pesante ricatto e non tutte le organizzazioni sindacali in tutte le fabbriche sono disposte a respingerlo. La delocalizzazione di impianti in paesi dove minore è la resistenza operaia e minori gli obblighi di legge è questione che non riguarda solo l’acciaio ma ogni settore industriale, compresi computer e telefonini, pannelli fotovoltaici e call center, vestiario e cibo. La divisione internazionale del lavoro comporta che i limiti di inquinamento, di esposizione a sostanze nocive e di fatica umana ammessi per una identica produzione siano diversi da paese a paese. In Cina e a Taranto si muore di più che negli Stati Uniti e in Svezia. E’ una questione di “ indici di sviluppo”, ovvero di rapporti di forza. E’ nella logica delle cose che una vita valga in modo diverso nelle diverse aree geografiche di un mondo dominato dagli interessi del profitto, dell’accumulazione, dei rendimenti del capitale.

L’Ilva, quindi, non è un caso eccezionale (non molto diverso dagli altri 164 “Siti di interesse nazionale”) e non può essere estrapolato dalla più generale logica in cui si muove l’economia di mercato. La “contraddizione capitale/natura” (come la chiamava James O’Connor) è consustanziale ai rapporti di produzione capitalistici. Ha ragione Rossana Rossanda (il manifesto del 25 luglio): non c’è vero ecologismo se non è anticapitalista. L’industrializzazione sempre più spinta comporta un crescendo della pressione antropica sugli ecosistemi. Prelievi di materie (ridotte a “risorse” e “materie prime” nell’ottica della loro utilizzazione nei cicli produttivi e di consumo) e scarichi di rifiuti in quantità e a ritmi non metabolizzabili dai cicli naturali deteriorano in modo irreversibile l’ambiente naturale. La perdita di biodiversità (la numerosità delle specie viventi sul pianeta), la desertificazione di suolo fertile, l’aumento delle temperature medie globali, l’acidificazione degli oceani, la salinizzazione delle falde acquifere e molti altri fenomeni “naturali” ci indicano la incompatibilità di un progetto di crescita infinita delle produzioni in un mondo inevitabilmente limitato.

Il sistema economico, sociale, culturale capitalistico non accetta l’esistenza di limiti bio-geo-chimici e ha ingaggiato una lotta permanente (tramite la scienza e la tecnica) per tentare di forzarli e spostarli sempre più in avanti. Si tratta di una vera e propria guerra contro la natura che sta conducendo ad esiti disastrosi, compreso lo sfruttamento di masse sempre maggiori di lavoratori e lavoratrici costretti a rapporti di lavoro subordinati.
A Taranto un gruppo di lavoratori dell’Ilva ha costituito un “Comitato di cittadini liberi e pensanti” che dichiara: “Prima del lavoro viene la salute”. Ma sono stati respinti. Evidentemente una verità troppo semplice per essere accolta da chi pretende di detenere il monopolio della rappresentanza politica e sindacale ed esercita l’autorità pubblica non in nome della salute e dell’ambiente, ma dell’economica della crescita, del profitto e dell’accumulazione.

C’è un modo per uscire dal dilemma devastante “reddito (cioè salario) o salute”? Sì, certo. Fin da Seattle (nel 1999), da Genova (2001), da Porto Allegre e Firenze (2002) un movimento altermondialista denunciò in anticipo il disastro in cui sarebbe andata incontro una globalizzazione neoliberista, senza freni e senza principi etici. Bisognerebbe partire da lì, rintuzzando gli “spiriti animali” dell’avidità e dell’egoismo proprietario che si sono impossessati dell’economia e della politica. Introducendo clausole sociali e ambientali negli scambi internazionali, imponendo la tracciabilità delle merci, applicando il principio di precauzione prima di introdurre sul mercato nuovi prodotti, obbligando le imprese a riconvertire le produzioni inquinanti, confiscano le aree irreversibilmente compromesse e molto altro ancora.

Ma anche imparando a vivere  facendo a meno di molto acciaio, di molta plastica, di molti combustibili, di molto cemento e asfalto, di molta carne, di molto consumismo “usa e getta”. Immaginando, insomma, di decrescere dalla dipendenza da una condizione di schiavitù (più o meno cosciente e volontaria) tanto consumista quanto produttivista. Sempre nell’articolo citato, Alberto Asor Rosa auspica un cambiamento radicale  del nostro approccio alla produzione e al consumo: “un diverso modello di sviluppo”. Forse è solo una questione terminologica, ma mi vengono in mente le parole di Caludio Napoleoni: “Non possiamo più limitarci ad immaginare un nuovo modello di sviluppo; la frase ‘nuovo modello di sviluppo’ è priva di senso: se si tratta di nuovo modello, questo non è più un modello di sviluppo” (Capitalismo, tre questioni centrali, “il manifesto” 19/20 marzo 1989).


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