La cronaca si occupa ogni giorno dei mali di Venezia: le invasioni selvagge di un turismo “mordi e fuggi”, le speculazioni delle rampanti corporazioni cittadine, l’indifferenza complice della politica, che persegue nel folle programma di smantellare gli ultimi avamposti culturali. E ora anche ulteriori affronti: la deroga al decreto “Anti-inchino” per le navi da crociera, che sfiorano le fondamenta ed inquinano la laguna; la trasformazione in un megastore del Cinquecentesco Fondaco dei Tedeschi, ai piedi di Rialto, acquistato dai Benetton; il super-progetto “Palais Lumiere” di Pierre Cardin per un grattacielo di 60 piani, alto 250 metri, che svetterebbe sul campanile di San Marco, superandolo di 140 metri. Così una città nata sull’acqua, grazie all’impegno di uomini antichi, che deviarono anche il corso dei fiumi per elevarne al cielo il suo splendore, verrebbe deformata per sempre da una prospettiva che dall’alto appiattirebbe l’intrigo sinuoso di calli e canali.
Un tempo era la grande letteratura a misurarsi con Venezia, con i suoi splendori e le sue ombre, il destino di città evanescente, sospesa fra cielo e mare, che nasconde i suoi enigmi dentro le stratificazioni secolari delle sue architetture ancorate nelle acque silenziose della laguna. Scenografia perfetta dove far congiungere gli estremi, in un’altalena di estasi e decadenza. “La più inverosimile città del mondo”, la definiva Thomas Mann. Luogo e tempo ideale del possibile per Marcel Proust, con i palazzi dagli stili sovrapposti a far da quinte ai canali come “catene di falesie d’alabastro ai piedi delle quali si va a passeggiare la sera in barca, per vedere il sole tramontare.” La luce fragile e radiosa della città lagunare si riflette nella scrittura soave di Henry James, che mentre penetra nelle tenebre e nelle scintille dei sentimenti ci regala ”la sensazione di andare galleggiando tra palazzi di marmo e luci riflesse, predisponendo la mente a libertà e agio”.
Ora, arriva un libro insolito, dalla fluida narrazione, a regolare i conti con l’eredità di bellezza secolare, violata dall’incuria del presente: “I Nuovi Veneziani”. Curato da Caterina Falomo, alla sua seconda prova dopo “Quando c’erano i Veneziani”, è un viaggio nella memoria alla ricerca delle radici perdute. Un libro che nasce dall’amore profondo per la propria città d’origine, che però “non è accecante, ma rivelante, un amore che non nasconde e non si nasconde”, spiega l’autrice, un’incursione nel passato per immaginare il futuro, sorretta dalla passione civile per ricomporne il volto autentico. Una raccolta di parole, messe in fila con armoniche assonanze ascoltando le voci del cuore di 18 scrittori “per caso”, alle prese con la loro particolare visione di Venezia, in cui vicende personali, destini collettivi, paesaggi urbani e reminiscenze storiche si intrecciano, ricomponendo i fili scomposti di un sottile ricamo strappato da mani maldestre.
In fin dei conti, al lettore Venezia appare come la metafora di una storia più vasta. Quella di un intero paese, saccheggiato dagli interessi speculativi di pochi, che hanno liquidato il patrimonio comune di tutti. Come l’Italia, Venezia sembra “sfuggita di mano ai suoi abitanti. Per salvarsi si è perduta. E perdendosi si è salvata. Per sopravvivere economicamente si è messa a recitare se stessa, a vendersi, a offrire la propria rappresentanza: scena, immagine, divertimento, cultura, turismo”, spiega Tiziano Scarpa nell’introduzione, riassumendo la storia della Serenissima che uscì dalle strettoie dell’Adriatico per avventurarsi nel Mediterraneo e approdare sulle coste orientali. Nacque così il mito di “Capitale mercantile d’Oriente” e per contrappunto avvenne che “Venezia traslocasse dai muscoli della pelle, si affacciasse tutta sulla propria superficie e ne facesse commercio, diventando a poco a poco pura immagine”. Sono urgenti nuove prospettive: preservare le glorie passate, ma anche “essere disposti a cedere una parte del proprio presente, al futuro, accettare di essere dei trasmettitori, degli affittuari, degli abitanti di passaggio, anche quando ci si è nati e cresciuti”.
Le varie testimonianze scorrono veloci ed emozionanti. E’ un affresco esistenziale quello di Toto Bergamo-Rossi (direttore del Venetian Heritage), che appena adolescente si inoltrava ”come in una caccia al tesoro con il mitico Lorenzetti in mano, tra chiese e musei, sempre con la nostra guida consunta, con le sue pagine sottili come la carta velina”. Una folgorazione che diventa il filo conduttore di una vita dedicata alla salvaguardia del patrimonio culturale veneziano. “Una visione non venezio-centrica”, lungimirante, e un invito a percorrere con occhi disintossicati dai luoghi comuni, campi, calli, campielli, chiese, musei e scoprire “veri e propri scrigni di tesori d’arte veneta sconosciuti ai più”.
E’ la Venezia in bianco e nero della giovinezza, quella evocata da Giovanni Pelizzato (editore del libro) “non quella dell’età dell’oro degli anni ‘50, ma che, per l’appunto, in quel periodo tanto di moda negli anni ’70 può trovare la sua cifra, a metà via tra il metallo nobile per eccellenza e l’imprecisata, indefinita, inodore plastica senza peso di oggi”. Un itinerario fatto anche di profumi e sapori perduti, “di cannoli croccanti farciti di dolcissima crema, francesine, greche, ptifur, pizzette in sfoglia”. Immagini di una città normale con “panettieri, salumai, fruttivendoli, fioristi, falegnami, idraulici, ciabattini”, botteghe e abitudini che gli anni ’80 hanno travolto, sotto la spinta di un iper-liberismo, che ha espulso residenti e artigiani, producendo uniformità di offerte e appiattimento dell’immagine.
E’ la luce impalpabile dorata, che a Venezia avvolge ogni cosa, abbagliando lo sguardo e trafiggendo l’animo, a ispirare il canto d’amore di Elena Barbarich (regista d’Opera): “una luce scomposta in riflessi, rifrazioni, schegge”. La stessa che ispirò i grandi della pittura, che secondo Ruskin trasformava le forme in fantasmi affioranti dal mare, e per Turner si dilatava “al punto di non poter più definire i contorni del paesaggio”, prosegue la Barbarich, “indissolubile dal senso fisico dello spazio e dal suono: il suono ovattato dell’acqua, rotto dall’improvviso riprodursi dell’eco dei passi, delle voci agli angoli dei muri”. Disillusioni, amarezze e sogni nel cassetto si alternano fra le intime confidenze dei testimoni, “perché questa città si fa amare e odiare”.
E poi affiora la paura di vedere “scomparire la storia sotto un’intonacata di calce fresca”, rivela la scrittrice Carmela Cipriani, e di assistere impotenti a una reinvenzione “attraverso ponti di ferro rosso, progettati da noti archi-star, pontili giganteschi, che nascondono le pietre millenarie, dighe che ne tappano le arterie, canali lastricati in cemento al posto dei masegni”. Fiction al posto della realtà, “baracche e baraccate che vendono una Venezia da televisione commerciale”, perché mancano cultura e sentimenti. Occorre “smontare la città da segnali e segni che l’hanno riempita fino a farla sfigurare”. Un’economia di rapina e una politica che gioca a ping-pong con se stessa non hanno saputo intercettare il disastro annunciato. Un grido di allarme lo lancia Emanuele Dal Carlo (designer ed esperto di comunicazione) contro le lobby “che hanno tutelato unicamente i loro squallidi interessi di bottega”, lasciando “una città intrappolata in un racconto tragicomico, in un’alternanza di sfarzo e miseria, in perenne emergenza”.
Gli fa eco il giornalista Raffaele Rosa: “Negli ultimi anni Venezia è diventa solo un business per le tasche di pochi e non un bene comune per la città”.
A volte prevale il suo volto “disperato, che sembra soffocare”; altre, risplende ancora la magnificenza della “Repubblica Serenissima, la città ricca, unica e indiscussa padrona del Mediterraneo. Ma come a Carnevale, quella è solo una maschera che nasconde i suoi mali”.
E come un tragico, ambiguo teatro delle maschere, ci rimanda al Carnevale dipinto a tinte forti dall’espressionista fiammingo James Ensor con dissacrante inquietudine.
I Nuovi Veneziani
a cura di Caterina Falomo
Edito da Studio LT2
16 Euro